HEMINGWAY, A 50 ANNI DALLA MORTE

Non si fa retorica, né si va lontani dal vero, se si dice che in Italia Ernest Hemingway scoprì sé stesso. Aveva appena diciott’anni, fu ferito e vide la morte in faccia, si innamorò e cominciò a capire cosa significhi morir d’amore, fece il suo apprendistato letterario, imparò a bere, la sconosciuta civiltà del vino che un vecchio continente decaduto e decadente offriva come ultimo dono ai nuovi barbari conquistatori venuti a prenderne il posto. Ha raccontato la moglie Mary che la sera prima che lui si ammazzasse, quell’inizio di luglio di mezzo secolo fa, «era stata così quieta e serena! Avevamo cantato quella vecchia canzone imparata a Cortina: “Tutti mi chiamano bionda”... E poi avevamo ricordato Venezia, l'Hotel Gritti, la grande festa che aveva voluto dare per gli amici che accorrevano da ogni parte del mondo... Ci ricordammo del vecchio Adamo, il conte Kechler e la cara Adriana Ivanich». Ernest l’italiano...
Il Veneto di Hemingway è il titolo del bel volume illustrato, curato da Gianni Moriani (Antiga, pagg. 168, 14,90 euro) e che ha fatto da catalogo alla omonima mostra di palazzo Loredan a Venezia, allestita nel cinquantenario delle morte. Raccoglie immagini e testimonianze di una giovinezza sfolgorante, di una maturità imponente, di una vecchiaia improvvisa e devastante. Nel 1954, quando Hemingway venne per l’ultima volta in Italia, aveva 55 anni e, reduce da un duplice incidente aereo in Africa, era ormai l’ombra di se stesso. Ha raccontato Roberta Kechler che fu suo padre, il conte Federico Kechler, a farlo visitare dai migliori specialisti italiani del tempo. «Aveva il rene destro completamente spappolato e quando il professor Vespignani gli fece la radiografia, fu stupito che fosse ancora vivo. Rimase qui a Codroipo, nostro ospite, una decina di giorni, sempre a letto. Era un uomo molto coraggioso, mai un lamento, mai un gemito».
Dei Kechler, Hemingway era stato ospite sei anni prima, in quella che fu l’ultima estate di San Martino della sua vita, l'autunno in cui a Fernanda Pivano, che per la prima volta se lo trovò di fronte a Cortina, fece l’effetto di «una luce accecante, come il sole in un'estate troppo calda. Chi non l’ha conosciuto allora, quando l’alcol non l’aveva ancora ghermito, quando l’incidente in Africa non l’aveva ancora spezzato e invecchiato di vent’anni, non può capire il perché del suo fascino». Il ’48 italiano di Hemingway fu un tuffo nel passato sui luoghi della Grande guerra, Schio Fossalta, Stresa e della propria, perduta, giovinezza e insieme l’illusione di fermare il tempo: ancora un romanzo, ancora un amore. Di là del fiume e tra gli alberi si chiamerà il primo, la ventenne Adriana Ivancich incarnerà il secondo, entrambi falliti e però emblematici di quel suo essere «a fighter», un combattente della vita fin quando c’era un vita che valesse la pena di combattere...
Oltre ai Kechler, furono i baroni Franchetti, Raimondo e il figlio Nanyuki, gli amici e i compagni di caccia di quell’estate di San Martino. Fiorindo Silotto, l’allora capocaccia della famiglia, ha raccontato anni fa la magia dei casoni da pesca, delle albe, della natura sovrana e trionfante. «Si usciva per cacciare alle tre del mattino, lo portavo nella botte, mettevo in acqua gli stampi delle anatre e delle folaghe e poi si aspettava. Sparava solo all’alba, il resto del tempo lo passava a scrivere dentro quella botte, fino a che si tornava. Una volta, dopo una battuta, mi regalò 50mila lire. Allora ci compravi un ettaro di terra».
Fuori del Gritti, l’albergo veneziano che sempre l’ospitò, c’è la copia di un quadro rappresentante una Madonna che Hemingway regalò ai gondolieri dello stazio di Sant’Angelo (l’originale è custodito altrove). Nel menu dell’hotel ha il suo posto d’onore il «risotto alla Hemingway», scampi e brodetto di pesce. «Sono tornato a curarmi a scampi e Valpolicella» ironizzerà lui al tempo del suo ultimo soggiorno.
Il giorno in cui mise la parola fine al romanzo veneziano del colonnello Cantwelll scrisse dal Gritti all’amica Marlene Dietrich: «Ieri sono morto per l’ultima volta con il mio colonnello e ho detto addio alla ragazza ed è stato peggio di qualsiasi altra volta». Ma ad Adriana Ivancich, la Renata di Di là dal fiume e tra gli alberi, lasciò in dono anche una fiaba scritta apposta per il suo nipotino Gherardo, La favola del buon leone, un leone veneziano con le ali che in Africa mangiava solo pasta e scampi e non gli esseri umani e che per sottrarsi alle angherie dei suoi malvagi confratelli africani tornava in volo a San Marco, salutava suo padre sulla Torre dell’Orologio e poi si faceva servire «un sandwich di mercante hindu» all’Harry’s Bar...
Venezia apparve a Hemingway «un gioco meraviglioso. È una specie di solitaire ambulante e se si vince si vince la felicità dell’occhio e del cuore».

In Di là del fiume e tra gli alberi ciò che gira a vuoto, usurata, è la straordinaria macchina del dialogo di cui un tempo aveva avuto il segreto, ma ancora adesso l’ambientazione lagunare lascia ammirati: «Era tutto ghiacciato, gelato di fresco durante il freddo improvviso della notte senza vento. Era flessibile come gomma e cedeva sotto la spinta del remo. Poi si spezzava di scatto come una lastra di vetro, ma la barca procedeva di poco». Ben trovato, ben tornato, Ernest l’italiano.

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