Cultura e Spettacoli

Hemingway, ecco gli ultimi segreti (di scrittura)

Un racconto giovanile, finora inedito in Italia, e la pubblicazione della versione originale di Festa mobile (modificato dalla moglie Mary) rivelano le coordinate dell’arte e gli strumenti del mestiere del romanziere

Hemingway, ecco gli ultimi segreti (di scrittura)

Il primo racconto di Ernest Hemingway sembrava scritto da Francis Scott Fitzgerald. Era la storia di un ragazzo molto ricco e troppo bello, Stuyvesant Bing, che si dichiarava a Dorothy, una ragazza molto ricca e solo bella, ma con dei capelli «colore dell’oro grezzo». Amici dall’infanzia, per Do Stuy è troppo incostante per potersene innamorare. Non si impegna, non va a fondo nelle cose, è un ragazzo, appunto, non un uomo. Certo, se gli dimostrasse di credere in qualcosa, se andasse, almeno una volta, sino al fondo delle cose, se gli facesse vedere «di essere un campione, non solo uno che si piazza bene», se facesse «di una cosa difficile il suo successo», be’, allora...

Scritto all'inizio degli anni Venti, inedito in Italia, La corrente (Via del Vento, pagg. 35, euro 4, traduzione e nota al testo di Francesco Cappellini) faceva parte di cinque storie brevi che Peter Griffin recuperò anni fa e mise in appendice al suo Along with youth. Hemingway the Ealry Years (Oxford University Press), biografia critica dello scrittore prima che divenisse tale, prima ancora cioè della pubblicazione di quel Three Stories and Ten Poems con cui nel 1923 fece il suo esordio pubblico.

Scott Fitzgerald, dicevamo all’inizio. Cos’è infatti Dorothy se non una flapper, una di quelle ragazze belli capelli che chiedono e ottengono una cosa pazza tutta per loro? E cos’è Stuyvesant se non uno di quei «giovanotti ricchi» che vedono se stessi solo grazie a occhi femminili? Entrambi fanno parte di un ambiente upper class di yacht, polo, golf, l’ambiente, appunto, del primo romanzo di Scott, Di qua dal paradiso, uscito nel 1918, e dei suoi racconti coevi. Ciò che Hemingway vi aggiunge di suo, e non è poco, anche se non è ancora sufficiente, è il terreno su cui Stuy decide di «essere un campione»: il quadrato di un ring. Tirerà di boxe, si farà spaccare la faccia, ma vincerà e «così brutto e meraviglioso, più bello di un gladiatore che sta morendo» avrà Dorothy fra le sue braccia (eppure, leggendolo, mi veniva da dire, questa storia già la conosco, ma non mi ricordo né dove né quando l’ho letta, né se proprio di Hemingway. Magari qualche lettore può risolvere l’enigma o sono io che sto invecchiando...)

Trasformando il racconto nella cronaca di un match, l’Hemingway ventenne aveva già chiare le coordinate della sua arte: scrivi di ciò che sai, la verità autentica delle cose e quindi della vita. La boxe, la caccia, la pesca, la guerra, la corrida, l’amore, la morte, l’amicizia virile saranno il ring dentro al quale si muoverà la sua scrittura. E non è un caso che, quarant’anni dopo, nel lavorare a Festa mobile, un capitolo del libro riguarderà ancora un incontro di pugilato: «A Strange Fight Club» era il titolo, la storia di Larry Gaines, «un alto, lungo muscoloso peso medio negro» venuto dal Canada a combattere allo Stade Anastasie, ristorante-palestra di Menilmontant a Parigi.

Festa mobile si chiude con la fine di un amore che è anche un addio alla Parigi della giovinezza, «la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici». È una chiusa malinconica, ma non era la sua. L’ultimo capitolo Hemingway l’aveva intitolato «Nada y pues nada», e aveva a che fare con l’alchimia dello scrivere, i segreti che stanno dietro a ciò che tieni e a ciò che togli dalla pagina, del tutto simili all’alchimia della vita, dove non sempre vince chi guadagna e ciò che si perde è spesso la parte migliore. Per uno che si considerava «nato per scrivere», e che aveva vissuto scrivendo tanto quanto aveva scritto vivendo, la memoria aveva a che fare con il cuore, l’unico organo che non dimentica, anche se fai finta di non ricordare. «Ci sono rimesse o depositi dove puoi lasciare o archiviare certe cose e questo libro contiene materiale dalle rimesse della mia memoria e del mio cuore. Anche se la prima è stata manomessa e il secondo non esiste più».

Così finiva quella prima stesura di «Nada y pues nada» a cui aveva lavorato all’inizio d’aprile del 1961. Era stato in clinica dal novembre al gennaio dell’anno precedente, dove gli avevano curato la depressione e le manie di persecuzione con l’elettrochoc e ora, tornato a casa, scopriva con angoscia che nelle «rimesse» della sua memoria e del suo cuore non c’era più nulla: l’alchimia dello scrivere gli era divenuta astrusa e insopportabile quindi quella della vita. A metà aprile, sua moglie Mary lo trovò davanti alla rastrelliera dei fucili, una carabina e due cartucce nelle mani. Lo ricoverarono di nuovo, lo curarono ancora e a giugno lo dimisero. Il 1° luglio non si fece trovare dalla moglie e si sparò. Festa mobile uscirà, postumo, tre anni dopo.

Adesso il lettore lo ha a disposizione nella sua versione originale (A Moveable Feast. The restored Edition, Scribner, pagg. 240, euro 25,70), per volontà del figlio di Hemingway, Patrick, e per le cure del nipote Seàn, e si può vedere non solo quanto e come Mary Hemingway e l’editor Harry Brague intervennero sul manoscritto, ma, come dire, l’intera scatola degli attrezzi dell’Hemingway scrittore, così come in La corrente se ne possono recuperare gli utensili primitivi: i capitoli messi da parte, una decina (fra cui il citato «A Strange Fight Club»), nella logica hemingwayana che uno scrittore giudica il valore di ciò che scrive «dall’eccellenza di ciò che elimina»; le ripetizioni funzionali a un raccordo fra le parti; gli stessi brani dilatati o accorciati a seconda dell’utilizzo deciso. Hemingway ci lavorò sopra continuativamente per quasi tre anni, dall’estate del 1957 all’autunno del 1959, quando inviò alla casa editrice una prima stesura di 19 capitoli, senza introduzione e senza finale, ma, come abbiamo visto, non se ne staccò mai: c’era l’incapacità a chiudere, mista alla paura-consapevolezza di non riuscire più a valutare ciò che scriveva.
Rispetto al testo originale, il Festa mobile pubblicato postumo recupera due capitoli che Hemingway aveva eliminato: «Nascita di una nuova scuola» e «Ezra Pound e il suo bel Esprit», quest’ultimo unito sotto tale titolo al ritratto del poeta che lo scrittore aveva invece deciso di tenere, «Ezra Pound e il verme misuratore». Inoltre, larghe sezioni del capitolo «Il pesce-pilota e i ricchi» vennero inserite in «Per Parigi non ci sarà mai fine», trasformato in capitolo finale, e in un paio di casi venne modificato l’ordine dei capitoli stessi. Qui e là l’editing tolse inoltre qualche inciso, qualche dialogo, qualche tempo verbale.

Senza entrare troppo nel merito, in almeno un paio di casi la revisione «vedovile» di Mary Hemingway è opinabile. Il primo riguarda il lavoro di taglia e cuci da cui vien fuori l’ultimo capitolo, dove il rimorso dello scrittore per la fine del proprio matrimonio, nonché l’assunzione delle proprie colpe in merito, scompare, per lasciare il posto a una sorta di vittima inconsapevole. Il secondo è ancora più arbitrario, perché riguarda un giudizio su Francis Scott Fitzgerald (e abbiamo già visto quanto Scott abbia significato per l’Hemingway degli esordi), messo in esergo al capitolo a questi dedicato.

L’originale suonava così: «Il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. In un primo tempo non lo capì più di quanto lo capisca la farfalla, ed egli non se ne accorse neppure quando il disegno fu guastato o cancellato. Più tardi si rese conto delle sue ali danneggiate e comprese come erano fatte e imparò a riflettere. Tornò ancora a volare e io fui fortunato a incontrarlo proprio in un momento giusto della sua scrittura, anche se non della sua vita». La versione di Mary modificò il finale così, recuperandolo da delle righe cestinate: «E non riuscì più a volare, perché l’amore per il volo era scomparso e poteva solo ricordarsi di quando volare non gli era costato il minimo sforzo».

Questo esergo, così come era stato concepito, bilanciava il ritratto molto critico del Fitzgerald alcolizzato e complessato, succube di una moglie pazza che odiava il suo talento e lavorava a distruggerlo. Nello scrivere Festa mobile, Hemingway si dovette a un certo punto accorgere che il racconto dell’ascesa e caduta di Scott valeva anche per lui, e che trent’anni dopo gli toccava in sorte ciò che un tempo aveva giudicato con la ferocia del vincitore nei confronti del rivale caduto. Adesso il sapore amaro del fallimento era anche il suo: l’angoscia della pagina bianca, l’accorgersi di non riuscire più a riempirla. In quel «tornò ancora a volare» c’era molto più di un riconoscimento, c’era, forse inconsapevolmente, un messaggio di speranza in proprio, l’idea che ce l’avrebbe fatta anche lui: bastava crederci, bisognava crederci.

Nel cancellare quell’illusione dalla pagina scritta, la vedova non fu solo spietata nei confronti della memoria di Fitzgerald, lo fu anche per la memoria di chi fra il non volare e quindi il rassegnarsi aveva scelto di ammazzarsi.

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