Da Hemingway a Einstein, quelle tremila targhe che nessuno guarda più

In tutti i quartieri i segni dimenticati del passaggio di personaggi che hanno vissuto o fatto grande la città. VIALE PASUBIO Sul marmo una scritta ricorda quando Ho Chi Min faceva l’aiuto cuoco. VIA MANZONI "Qui Verdi è spirato. Nell’anniversario della morte il Comune posò". Aiutateci a trovare quelle dimenticate Siamo andati a vedere alcune di que­ste testimionianze, probabil­mente le più note, ma sia­mo certi che ve ne siano altre ormai dimenticate. Se i lettori vogliono segnalarle possono scriverci o inviare una mail a cronaca.mi@ilgiornale.it

Alcune colpiscono per il nome. Albert Einstein. Ernest Hemingway. Giacomo Leopardi. Filippo Tommaso Marinetti. Il poeta Ausonio Decimo Magno del IV secolo d.C., Mozart. Altre per il linguaggio, poiché vi campeggiano parole come «patria», «virtù», «onore», il cui suono tenta ancora di allungare un’orma nella nostra coscienza così attuale, per scivolarvi in modo ridicolo come su una buccia di banana sempiterna. Altre per il luogo in cui sono poste. Sono le targhe in pietra a ricordo di un uomo che abitò in una casa, oppure vi soggiornò per un breve periodo di tempo, o che in un palazzo morì.
Milano abbonda di questi «tasselli», arrivando a contarne addirittura tremila, per un peso di circa cento tonnellate. Non raggiungono la ventina quelli femminili. Sono ritagli di una tappezzeria del passato non degnati di uno sguardo dai passanti. C’è una malinconia in questa dimenticanza che esprime il destino delle umane genti. Esempio. Quante targhe ci sono in via Montenapoleone? Una. Nella mondiale via dello shopping, del pensiero fuso nella rinfusa dell’acquisto, proprio sopra Dior, tra gli sguardi presi dai luccichii di abiti e borsette, sta scritto solamente: «Abitava in questa casa Emilio Morosini, ai condiscepoli esempio di gentili virtù e di generoso valore, caduto sotto le mura di Roma il 1 luglio 1849».
Chissà com’era via Montenapoleone al tempo in cui Emilio Morosini, uno dei primi a salire sulla barricata delle Cinque Giornate, esprimeva il suo valore di uomo e chissà se lui, almeno per una volta, si è chiesto: «Cosa succederà alla mia dimora tra centocinquant’anni?». Morosini e Dior: due nomi separati da un secolo e mezzo ma uniti da un rettangolo in pietra, espressione di un binomio che ha del grottesco in questo luogo. E sarebbe anche bello che qualcuno in via Sant’Andrea notasse una cosa. La targa: «In questa sua casa visse dal 1876 al 1913 Pietro Carmine, uomo di Stato eminente, deputato al Parlamento Nazionale per nove continue legislature dal 1881 al 1913, tre volte ministro della Corona, presidente del Consiglio provinciale dal 1902 al 1913, vicepresidente della Camera dei Deputati. Lavorò instancabilmente per il bene della Patria». A quale uomo politico scriveremmo queste parole per essere resistito sì tanto al Governo? Oggi resistere non è certo sinonimo di «lavorare instancabilmente». Così pare che non siano casuali i cinquanta pinguini nella vetrina di Moschino, proprio sotto quelle definizioni che non diremmo mai dei nostri politici. Saggezza o ironia delle sorti? Chissà!
Come: chi sa dove morì Giuseppe Verdi? La folla sbuca in fretta dalla metro in viale Alessandro Manzoni e non sembra certo curarsi di questa domanda. Eppure nel palazzo che fa angolo tra il viale e la fermata della metro la targa indica che lì «Giuseppe Verdi spirò il 27 gennaio 1901. Nel primo anniversario di cotanta morte pose il Comune per consenso unanime di popolo a perpetuo onore del Sommo, che avviò nei petti italici con ancestrali armonie il desiderio e la speranza di una Patria». Perpetuo onore? Ormai per noi di perpetuo c’è solo il moto in fisica. Per il resto, tutto è perituro. «Petti italici» poi se ne conoscono pochi, se non si devia il focus sui monticelli sotto i reggiseni che svirgolano sui marciapiedi. Le «ancestrali armonie»? Ma quando mai sappiamo ancora pronunciare parole così! Se le dicessimo, si rivolterebbero sulle nuvole persino gli angeli, a cui proferiamo tanto amore e fede mentre crediamo che Dio sia morto. Dettaglio. Il ricordo di Verdi sta proprio sopra al nome della strada: Alessandro Manzoni. I due si incontrarono una sola volta in vita, nel 1866, in casa della contessa Maffei, ma le due incisioni in pietra li uniscono nei secoli.
Sfogliando la città, l’antica tappezzeria ci rammenta Ho Chi Min, in viale Pasubio 10. A Milano il leader rivoluzionario lavorò per qualche mese come aiuto cuoco all’Antica Trattoria della Pesa. Fu noto come il «pasticciere trozskista», visto che divenne esperto dell’arte pasticcera all’hotel Carlton di Londra sotto la guida dello chef Auguste Escoffier. Quindi Ernest Hemingway, un abitante di via Armorari 4 nell’estate del 1918. All’epoca l’edificio era un ospedale della Croce Rossa e il premio Nobel per la Letteratura 1954 vi fu ricoverato per una ferita riportata a Fossalta del Piave. Conobbe Agnes von Kurowsky, americana di origine tedesca, con cui visse una storia indimenticabile, visto che a quell’amore dedicò uno dei suoi romanzi più letti, Addio alle Armi. In piazza Balamonti 3 c’è colui che «con le sue auto superbe costruì un mito»: Ettore Bugatti; e se restiamo in ambito motori in corso Sempione 60 c’è il bolide della Formula 1, Alberto Ascari. Una chicca: Pantaleon Perez Prado, Cuba 1926 - Milano 1983. Il re del mambo fuggì dall’isola natìa e visse qui con la moglie Eda Pov, nota come la «Venere Mulatta».
Milano che accoglie i grandi, che dà loro i natali, che li fa esprimere nei doni migliori. E’ scolpito sul bell’edificio di piazza Mercanti, oggi sede di uffici finanziari: «Dalla cattedra di eloquenza di queste scuole palatine e poi di Brera, Giuseppe Parini educò la migliore gioventù lombarda al Buono al Vero al Bello, preparando la fondazione morale e civile di una libera società italiana».

Forse alcuni giovani milanesi che sono stati a Roma in piazza San Giovanni di questa libertà non hanno compreso cosa sia il Vero, il Buono, il Bello. Sono convinti che siano personaggi di una fiaba che mente, senza vergogna, più di Pinocchio, che ha una targa anche lui!

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