È a Maskali che prende definitivamente corpo il de Monfreid «lupo dei mari», lo Shaytan, il Diavolo del mar Rosso. È il 1914 e sono quasi tre anni che è in Abissinia. Ci è arrivato nell'agosto del 1911, da Marsiglia, a bordo dell' Oxus : terza classe, sei cuccette per cabina. Tramite conoscenze ha ottenuto un posto di agente presso Marcel Guigniony, un commerciante di cuoio, armi e generi alimentari, caffè in primis , ma è in prova, il viaggio se l'è dovuto pagare, se non riesce peggio per lui. Non è una prospettiva allettante, ma ciò che si lascia alle spalle per molti versi è ancora peggio. Una serie di rovesci economici, frammisti a piccoli imbrogli, una lunga convivenza finita male, per giunta con una ragazza madre, un figlio e un figliastro da mantenere, un rapporto di odio-amore con il padre, al quale non perdona il suo vivere di rendita e l'aver abbandonato la madre, la sensazione di aver sbagliato tutto, di non aver mai cercato la propria strada, di essere sempre andato a rimorchio delle convenzioni sociali, delle abitudini consolidate. Fra l'ignoto in cui rischia di fallire e il conosciuto dove ha già fallito, è una scelta obbligata, ma mentre l' Oxus si lascia il porto e la Francia alla spalle, de Monfreid si rende conto che è anche una scelta liberatoria: «In un attimo tutte le piccole, mediocri regole borghesi in cui avevo chiuso i miei istinti per quindici anni furono consumate. Scompariva il passato, quel passato nauseabondo... Con gioia feroce ne dispersi la cenere a pedate». Gli resterà però in bocca il gusto amaro dell'«istinto del gregge», come lo definirà, e che lo renderà sempre scostante e sospettoso verso gli altri europei d'oltremare, funzionari e commercianti, per i quali «la speranza del ritorno è l'unico conforto», che si cambiano d'abito due volte al giorno, gioiscono del rito quotidiano dell'aperitivo e di quello serale del poker e della manille e «con il pretesto della pelle nera credono di dover trattare gli etiopi a calci nel culo, come i negri del Madagascar e della Costa d'Avorio. Preferisco passare per duro che piegarmi a quella vita».
Gli inizi non sono comunque facili, tant'è che per un momento Henry accarezza la speranza che Victor Segalen, amico del padre \ e ormai amico suo, possa trovargli qualcosa in Cina, dove è in missione. È consapevole, Henry, di essere una piccola ruota nell'ingranaggio commerciale di Guigniony, tanto più piccola se si tiene conto che «qui non esiste alcuna legge e si è alla mercé dei capricci di un ras che vi spoglia di tutto ciò che possedete».
Che cosa sia il potere assoluto di un capo abissino, de Monfreid lo vede nel corso di quello che è il suo primo incontro con il futuro Negus Hailé Selassié. Convocato a Addis Abeba dall'imperatore Ligg Iyasu, Ras Tafari, allora governatore di Harar, si mette in viaggio con seicento uomini al suo seguito. È il gennaio del 1912 e la corte si muove sul territorio come se tutto le fosse dovuto: viene nutrita gratuitamente, può saccheggiare impunemente: se qualcuno si oppone, è frustato sul campo. Ogni volta che essa si ferma e vengono montate le tende, canti di benvenuto, versi di circostanza, esibizioni militari, fantasie a cavallo, combattimenti con le lance festeggiano l'avvenimento. In fila, le delegazioni locali presentano i loro omaggi: «Alla loro testa c'è il capo del villaggio, poi gli uomini carichi di tessuti su letti di canne, poi uno o due buoi a seconda dell'importanza del villaggio, infine donne che portano zucche riempite di birra, duna, idromele. Tutti corrono, con la paura di essere in ritardo. Una volta arrivati, restano sull'attenti: frusta alla mano, una specie di intendente dall'aria scontrosa prende in consegna la mercanzia. Poi bisogna correre via in fretta, via dall'accampamento, e tutti scappano sotto le frustate, come una mandria che si caccia. Ho provato pena nel vedere un capo villaggio, un uomo brizzolato, la testa superba, ricevere un colpo di frustino in pieno viso da un ascari solo perché si era avvicinato troppo alla tenda del governatore. È rimasto impassibile e poi velocemente è scomparso».
Ras Tafari ha allora vent'anni, è basso di statura, ma ben proporzionato, nemmeno troppo scuro... A de Monfreid ricorderà in piccolo, perché più mingherlino, un compagno di liceo... Restano a colloquio per un'ora: «Conduco la conversazione in modo da lusingare il suo amor proprio mentre parlo di cose che mi interessano. Mi offre un idromele che bevo senza battere ciglio: è sidro duro che sa di muffa. Infine mi congedo e esco in mezzo ai saluti rispettosi del seguito, che giudica la mia importanza sulla lunghezza dell'udienza». \
***
In rada davanti a Berbera, a mezzo miglio dalla costa, un piroscafo color grigio si confonde fra il cielo e il mare di piombo. De Monfreid e i suoi compagni di camion sono andati a raggiungere gli altri duemilacinquecento prigionieri arrivati lì prima di loro, e ora questo formicaio umano attende l'imbarco. Berbera è il luogo prescelto dagli inglesi per fare tabula rasa degli italiani d'Etiopia, nonostante le proteste e gli sforzi di Hailé Selassié che si rende conto della loro importanza per lo sviluppo futuro del Paese. Hanno ridotto a poche centinaia il numero di civili da non evacuare e fra la primavera del 1942 e l'inizio autunno del '43, le cosiddette «navi bianche» italiane ne riporteranno in patria circa trentamila. Altrettanti, più settantamila fra ufficiali e soldati, si incaricheranno loro di deportarli in Kenya, tutto ciò che resta del sogno infranto di un impero.
Divisi in cinque gruppi, gli italiani prendono posto su grandi chiatte e cinquecento per volta vengono portati a bordo. Passano così alcune ore, poi arriva anche il turno di Henry. Al momento di superare la poppa della nave, il suo occhio cade su qualche lettera dorata che ancora si distingue sotto la vernice che l'ha ricoperta: Chantilly decifra alla fine, qualcosa di più, pensa, di un altro ironico segno del destino... È lo stesso vapore con cui anni prima partì da Marsiglia per Gibuti, al tempo del suo reportage per Le Petit Parisien che gli costò l'espulsione dall'Etiopia. E come se si chiudesse un ciclo, ma siccome la megalomania non gli fa difetto, la constatazione, più che deprimerlo, lo esalta... Si sente un po' «come la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Lui ha fatto di tutto per tornare in Etiopia, non ha avuto scrupoli, si è alleato con gli italiani, ha sfidato gli interessi inglesi, se n'è infischiato delle titubanze francesi... Non se ne pente, nemmeno adesso che il suo orizzonte più prossimo sembra essere una stiva strapiena di bestiame umano e il suo orizzonte finale un campo di concentramento in terra d'Africa. «La mia stella non è spenta» si dice con forza.
Nei tredici giorni di navigazione verso Mombasa, de Monfreid quella «stella» fa di tutto per tenerla accesa. Il caldo è infernale, le condizioni igieniche indescrivibili, il vitto scarso e immangiabile, il rigore della sorveglianza sfocia in brutalità gratuite e lui ha soprattutto paura che il fisico ceda. Pensa persino di evadere, anche se non si fa troppe illusioni sulla sua sopravvivenza in mare: lì almeno la morte sarebbe come un grande sonno, l'incoscienza progressiva che segue al venir meno graduale delle forze, sempre meglio della «vita intollerabile» che sta sopportando. Dagli incavi dei verricelli recupera del grasso lubrificante con cui fare le veci del sego da spalmarsi sul corpo come antigelo, prepara una seconda cintura di salvataggio utilizzando due scatole di latte. Secondo i suoi calcoli, il momento adatto dovrebbe essere quando il piroscafo è al traverso di Ras Hafun, ribattezzata Dante nella Somalia italiana, sulla costa settentrionale: lì ci sono le barche dei pescatori di pinne, il vento e le correnti di sud-ovest spingono a terra, basta farsi portare e sperare nell'incontro con qualche boutre che, vento di poppa, viene da Mukalla... Scivolerà in acqua da dietro i baraccamenti dei bagni, con l'aiuto di un canapo...
Il giorno prescelto, mentre dopo un ultimo giro d'ispezione sta cercando di riguadagnare la sua batteria e aspettare la notte, nel passare davanti a un boccaporto si sente chiamare: è un ufficiale italiano, mutilato di guerra, medaglia d'oro al valore. Ai tempi della campagna d'Etiopia de Monfreid è stato un volto e un nome noto nell'esercito italiano ed è questa popolarità che ora gli vale un'occasione inaspettata. Quando Henry indica all'ufficiale dove è «alloggiato» questi scuote la testa: «È inammissibile, alla vostra età, gettato li in mezzo. Venite con me. Il vostro posto è in infermeria. Parlerò io con il dottor Imbiaco»...
Adesso i giorni passano veloci e se non ci fosse il cattivo tempo, un navigare in zavorra che è il non plus ultra per il mal di mare e l'obbligo di stare a letto sino alla fine delle tre visite giornaliere, sarebbero quasi piacevoli. L'uomo, riflette Henry, non è mai soddisfatto e non appena ha ottenuto quello che voleva, passa a lamentarsi di quello che non ha... Intanto però ha ripreso forza e il futuro, per quanto nero, lascia intravedere un po' di luce.
Forse è la luce di un'altra Africa. Dal finestrino del treno della KUR, Kenya and Uganda Railway, che da Mombasa va a Nairobi, il suo sguardo si perde su foreste di banani, manghi, guaiave, un gigantesco, prodigo frutteto naturale. Tra gli alti fusti delle palme di cocco, gruppi di indigeni in cerchio attorno a un fuoco fanno arrostire spighe di mais; sul lato di una capanna, una nidiata di marmocchi nudi. Poi c'è lo stridore dei grilli, il canto querulo di strani batraci, frammisto a melopee, al suono di liuti a quattro corde. Miriadi di lucciole illuminano un tiepido crepuscolo, l'intenso profumo di magnolie sale come un incenso... «Allora, non mangi? Tieni, questa è la tua razione. E chiudi quel finestrino. Che diavolo vuoi vedere di notte in quel bled ?» Henry si ritrova di colpo incatenato a quel carro ferroviario di deportati, schiacciato su un lato del vagone, l'aria impregnata di tabacco e di sudore, la luce accecante della plafoniera centrale, i suoi compagni sbracati, intenti a masticare e a giocare a carte. È la sua Africa che sembra ammonirlo a non farsi troppe illusioni.
Al mattino, ai primi raggi del sole, su un'immensa pianura di erba giallastra, una stazione sembra annunciarsi con i suoi serbatoi zincati dell'acqua. Ma no, è la periferia di una città dice qualcuno, invece è un campo di prigionia, centinaia di baracche in cartone catramato che si allineano su chilometri quadrati. Poveracci, pensa de Monfreid, vivere in questo deserto... Quando lo fanno scendere, comincia a capire che in quel deserto ci dovrà vivere lui. È il campo di Makindu, un quadrilatero immenso diviso in venti settori recintati, ciascuno di trenta o quaranta baracche. Al centro, un campo di calcio con degli altoparlanti che, ogni sera, diffondono le notizie dell'Eiar di Roma.
I bollettini trionfali dell'offensiva in Cirenaica, della caduta di Sebastopoli, dell'ecatombe di navi alleate nel mar Caspio, Ovazioni entusiaste li accolgono, sotto lo sguardo impassibile dei sorveglianti. È il 17 giugno del 1942 e capisce che gli inglesi vinceranno la guerra...Stenio Solinas
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