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Hezbollah sfida l’Onu: «Non disarmiamo»

Gian Micalessin

da Beirut

Israele grida al lupo e Washigton incomincia forse a cercarlo. Ma il lupo è dentro il recinto già da po’ e ha incominciato a stringer alleanze con gli altri animali. Il lupo è Hezbollah, il Partito di Dio, che ieri, assieme agli alleati di Amal, l’altro gruppo sciita egemone nel sud del Libano, s’è pappato in un sol boccone tutti i 23 seggi della circoscrizione.
Da ieri mattina questa vittoria del tutto prevista e scontata desta allarme. Il primo a preoccuparsi è Israele. «Sfortunatamente - annunciano i suoi portavoce - Hezbollah è un’organizzazione armata e il problema libanese potrà venir risolto soltanto con l’applicazione della risoluzione 1559 delle Nazioni Unite che ne chiede il disarmo». In verità la vittoria di Hezbollah e Amal rappresenta una svolta critica non tanto per il numero di seggi guadagnati dall’alleanza filo siriana quanto per la sua potenziale capacità di disinnescare quella risoluzione 1559 votata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu su richiesta di Usa e Francia. Per capirlo basta ascoltare le dichiarazioni dei principali leader di Hezbollah e Amal. «I cittadini del sud hanno espresso un chiaro sì a una linea comune in favore della resistenza e dell’unità del Libano, il loro voto ha fatto capire agli Stati Uniti che il popolo libanese è unito è indipendente», annuncia esultante lo sceicco Naim Qassem, numero due di Hezbollah.
«Il sud ha parlato con una voce sola sulla questione della resistenza: è quella delle sue armi», gli fa eco Nabih Berri, il presidente del Parlamento, legato a doppio filo a Damasco, che grazie a questi successi si candida seriamente a un secondo mandato. Il senso di queste dichiarazioni è fin troppo esplicito. La conquista dei 23 seggi con percentuali vicine all’80% verrà utilizzata sul fronte interno alla stregua di un referendum per l’abrogazione o il rinvio della clausola sul disarmo.
Questa strategia era già stata delineata il 25 maggio da Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah. Il carismatico leader aveva preannunciato un secco no alla richiesta di consegnare le oltre 12mila katyusha puntate su Israele attribuendo a quelle armi la funzione di deterrente strategico essenziale per mantenere un «equilibrio regionale basato sul terrore». Il disarmo non potrà mai venirci imposto, aveva fatto capire Nasrallah, ma soltanto negoziato nell’ambito di accordi che riguarderanno gli assetti interni e sul piano internazionale, la questione palestinese, le trattative sul Golan con la Siria e la questione nucleare iraniana. L’elemento più interessante di quel 25 maggio a Beit Jbeil era stato però l’inatteso dietro front del leader druso Walid Jumblatt, protagonista a suo tempo, assieme al defunto Rafik Hariri, della stesura di quella risoluzione 1559 presentata poi all’Onu da Washington e Parigi. Comparso a sorpresa sul palco prima di Nasrallah, il leader druso aveva innescato un’inattesa retromarcia criticando la politica statunitense in Medioriente e dicendosi pronto a battersi per impedire il disarmo dei 3.000 miliziani del Partito di Dio. Promessa confermata in un’intervista al Giornale tre giorni più tardi.
Alla parole di Jumblatt, Nasrallah aveva aggiunto «la promessa segreta» di Rafik Hariri sostenendo che l’ex premier gli avrebbe confidato poco prima di essere assassinato di non voler dare alcuna applicazione alle clausole del disarmo. Lo scenario era già chiaro, dunque, da almeno due settimane. Hezbollah e Amal avrebbero conquistato, grazie a una legge elettorale che nessuno ha voluto cambiare, l’egemonia nel sud e l’avrebbero utilizzata per contrastare la prospettiva del disarmo.

I sunniti, che domenica hanno fatto eleggere Bahia Hariri, sorella del defunto primo ministro, nelle liste di Hezbollah, contraccambiando con un loro candidato a Beirut, si sarebbero adeguati alla promessa «segreta» di Rafik. I drusi avrebbero replicato la stessa politica d’alleanze nel nord e nella Bekaa accettando, come richiesto dal loro leader, la presenza armata del Partito di Dio nel Sud.

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