"Ho capito cos'è la libertà rivedendo un frigorifero"

È stato accusato e assolto per l'omicidio di Meredith: "Dopo 4 anni di carcere l'ho guardato imbambolato. Non voglio dimenticare ma raccontare Per questo faccio l'opinionista in tv"

"Ho capito cos'è la libertà rivedendo un frigorifero"

Ogni mattina Raffaele Sollecito, 32 anni, ingegnere informatico, nella sua casa di Giovinazzo (Bari) si guarda allo specchio. E vede, oltre al suo viso, il riflesso di un ricordo. «In carcere - racconta - gli specchi sono proibiti. Lì dentro sei solo un fantasma. E ai fantasmi è negato specchiarsi». Sollecito, «lì dentro», è rimasto chiuso 4 anni. Da innocente. «Un'ombra tra le ombre, spazzatura tra la spazzatura». Come in un sacchetto di immondizia nel tritarifiuti della giustizia italiana che lo ha prima maciullato per poi, alla fine, «riabilitarne» i resti. Otto anni (dal 2007, quando a Perugia fu uccisa Meredith Kercher, al 2015, quando la Cassazione ha scagionato definitivamente Sollecito) contrassegnati da «carichi» e «scarichi» nei bidoni della raccolta differenziata delle sentenze. Dalla discarica al riciclaggio. Cinque dicembre 2009: condanna in primo grado; 3 ottobre 2011: assoluzione in Appello; 30 gennaio 2014: condanna nel nuovo processo di Appello ordinato dalla Cassazione; 27 marzo 2015: assoluzione definitiva da parte della Cassazione.

La libertà riconquistata. Il ritorno a casa. Cos'è la prima cosa che ha fatto?

«Ho aperto il frigorifero».

Perché?

«In cella il frigorifero non potevo tenerlo. Bere una birra fresca era un sogno. A casa, davanti al frigo, ero come ipnotizzato. Ma di lì a poco mi sarei dovuto preoccupare di ben altro».

Anche se il peggio era ormai un incubo passato?

«Però già incombeva un altro diavolo».

Quale?

«Lo spettro della depressione».

Ha sentito le sue unghie sulla pelle?

«Con fatica sono riuscito a liberarmi anche dalla sua terribile morsa».

In che modo l'ha sconfitta?

«Facendo lunghi viaggi».

Anche negli Usa?

«I giornali dissero che ero andato a festeggiare con la mia ex fidanzata Amanda».

E invece non la cercò?

«Sì, andai a trovarla. Ma lo scopo principale era quello di ritrovare me stesso».

Chi le è stato vicino nei momenti più bui?

«Mio padre e Greta, la mia compagna».

Sogna di diventare padre?

«Lo diventerò, prima o poi».

Quando suo figlio diventerà grande, cosa gli dirà?

«Che al padre non è mai mancato il coraggio. Che nella vita, anche se si è vittima di un'ingiustizia, vale sempre la pena di lottare. E la vittoria può essere un premio bellissimo».

Crede in Dio?

«Sì, in carcere l'ho invocato spesso. Ma non per me».

Chi ricordava nelle sue preghiere?

«I mie genitori. E Meredith».

Per sé non riservava neppure un coriandolo di fede?

«Avevo fede soprattutto nel mio avvocato, Giulia Bongiorno, una donna eccezionale. Con lei ho studiato tutte le carte del processo».

Una volta ha detto: «Per fortuna mia madre è morta...».

«Se fosse rimasta viva avrebbe sofferto terribilmente per tutto ciò che ho passato. Mamma era sensibile e fragile. Mio padre, invece, si è rivelato una roccia».

Oggi lei è iperattivo.

«È vero. Si tratta di una sorta di contrappasso rispetto ai tanti anni in cui mi è stata scippata la gioventù. Giocare a rugby mi dà gioia. Il rugby è la metafora della mia vita. Lottare, combattere, cadere a terra. E rialzarsi».

Ha scoperto anche il Partito radicale.

«Pannella è un mito. L'ho conosciuto. Porta il codino. Mi sono ricordato quando il codino lo portavo anch'io e sui giornali mi chiamavano l'assassino col codino».

Una frase di Pannella che le è rimasta dentro?

«Quando mi ha detto che la mia storia gli ricorda quella di Tortora. Pannella è l'unico politico ad avere a cuore la sorte dei detenuti. A denunciare le torture psicologiche a cui è sottoposto chi è chiuso in carcere».

Una realtà che lei ha toccato con mano.

«Un'esperienza allucinante che non può rimanere avvolta dal silenzio. Io ho il dovere civico e morale di renderla pubblica».

Per questo è diventato anche opinionista in tv.

«Paolo Liguori ha detto che di giustizia è più esperto Sollecito di alcune belle criminologhe che bazzicano i salotti televisivi. Io ho un obiettivo ben preciso».

Quale?

«Quello di denunciare l'assurdità dei processi mediatici che trasformano drammi giudiziari in squallidi programmi di gossip. In tv si dovrebbe dibattere solo sulle carte delle inchieste, su atti, prove. Ma questo richiederebbe fatica e serietà. Si preferisce allora fare del colore».

Su di lei se n'è fatto tanto.

«Per anni, sui media, la mia vita è stata un frullatore di bugie. Sono stato dipinto, a seconda di chi era l'autore del quadro come un tossicodipendente, un figlio di papà, un omicida, un degenerato sessuale. Non sono mai riuscito a fare il callo a tanto ingiustificato accanimento nei miei riguardi».

Il sottotitolo del suo libro «Un passo fuori dalla notte» (Longanesi) recita: «Tutto quello che non avete mai immaginato di me». Cos'è che non abbiamo immaginato di lei?

«Nessuno ha immaginato che ero, e sono, un ragazzo normale, senza grilli per la testa. Ma immaginare questo non faceva comodo a nessuno. Vuoi mettere il gusto cinico di sparare sul mostro?».

La gente ora, dopo la sua assoluzione definitiva, ha cambiato opinione su di lei?

«Spero di sì. Ma temo di no. In giro c'è tanta gente ignorante».

C'è stato un complotto contro di lei?

«No. Ma c'è stata comunque tanta arroganza, tanti pregiudizi e tanta impreparazione da parte di chi doveva accertare la verità e invece ha preferito andare a caccia di fantasmi».

La Cassazione, nella motivazione con cui l'ha scagionata definitivamente, ha usato parole di fuoco contro chi l'aveva precedentemente condannata.

«Una durezza che non mi ha sorpreso. Peccato che comunque, al di là della soddisfazione morale, nessuno potrà mai restituirmi ciò che mi è stato tolto. Resta però un rammarico».

Per che cosa?

«C'erano indizi fortissimi che avrebbero consentito di chiudere il giallo della morte di Meredith in tempi brevissimi. Mi riferisco all'impronta di mano insanguinata lasciata sul lenzuolo dall'assassino».

A chi apparteneva quell'impronta?

«A Rudy Guede».

È lui che ha ucciso Meredith?

«Questo è quanto hanno stabilito i giudici».

Chiederà allo Stato un risarcimento per ingiusta detenzione? Si è parlato di 500mila euro.

«Sarebbe comunque una somma insufficiente. La mia famiglia ha speso più del doppio per far fronte alle spese processuali nei vari gradi di giudizio. Siamo stati costretti a vendere due appartamenti. E siamo pieni di debiti. Mio padre fa il chirurgo, ha un ottimo stipendio. Ma non siamo ricchi».

Lei spesso va in scuole e università a portare la sua testimonianza, qual è la critica che l'ha colpita di più?

«Non è stata una critica. Ma un consiglio venuto dal Procuratore della Repubblica di Bari che un giorno mi disse: Devi staccarti dalla tua odissea giudiziaria, altrimenti non riuscirai mai a dimenticare...».

La sua risposta?

«Che non avevo nessuna voglia di dimenticare. Anzi, voglio raccontare tutto a tutti. Per un attimo, quando sono uscito dal carcere, ho pensato di rifarmi una nuova identità in un Paese lontano. Cambiando nome e persino la faccia. Ma poi ho deciso di non snaturarmi. Oggi posso dire di aver fatto la scelta più giusta».

Ora è diventato imprenditore di se stesso. Ha fondato, grazie anche a un finanziamento delle Ragione Puglia, la startup «memores» che garantisce, tra l'altro, fiori sulle tombe di defunti lontani migliaia di chilometri.

«Ho ideato il progetto pensando a mia madre».

Meredith è sepolta alla periferia di Londra. Ha pensato anche a un fiore per lei?

«Sì. E sarò io stesso a portarglielo. Lo feci già cinque anni fa. Lo rifarò con amore».

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