Politica

«Ho compilato il Catalogo dei viventi per ricordare che siamo dei morenti»

Giorgio Dell’Arti appartiene a una particolare razza di giornalisti, quelli che Sergio Saviane definiva «vendemmiatori». Il critico televisivo se ne lamentava ogni volta che c’incontravamo: «Mi vendemmiano dalla testa ai piedi, capisci? Mi fregano pezzi interi, tagliati col coltello. Io almeno copio da me stesso, non rubo in casa d’altri». Dell’Arti va oltre: è anche un eccelso vinificatore. Dalla sua botte può spillare indifferentemente gran cru e uvaggi, champagne e lambrusco, riserve del fondatore e novelli. Ciofeche mai. La vendemmia dura da quasi 40 anni. Il mosto viene messo a riposare in un database che raccoglie qualcosa come 130.000 schede, suddivise per autore, argomenti, testate. Un esercizio colto e pertinace che non ha eguali in Italia e che va già sotto il nome di dellartismo. Nomen omen: impara l’arte (altrui) e mettila da parte. Lui è anche l’unico in grado di ricordarsi da che parte l’ha messa.
Nella cantina di Dell’Arti s’imbottigliano biografie, interviste, dichiarazioni, aforismi, abstract, gossip, particolari anatomici, vizi privati e pubbliche virtù, tratti dai giornali con inesausta curiosità, ma anche con calcolata perfidia, perché l’uomo, nonostante i riccioloni bianchi che gli conferiscono un’aria da cherubino, ha una lingua che taglia e che cuce, come si dice dalle mie parti, e nella fattispecie, oltre alla lingua, anche le mani.
Fino a ieri questa messe d’informazioni gli serviva per confezionare Il Foglio del lunedì, detto anche Foglio rosa per via della carta colorata, che raccoglie i pezzi migliori usciti sui giornali. Oppure per le rubriche che tiene su La Stampa, Io Donna e Vanity Fair. O per i suoi libri. Ora è stata travasata in una damigiana da far paura: il Catalogo dei viventi, un volume scritto con Massimo Parrini e pubblicato da Marsilio, sottotitolo 5.062 italiani notevoli. Ossia, dovendo dirla come piacerebbe a Dell’Arti, 1.806 pagine, 16.788.376 caratteri (quasi quattro volte quelli della Bibbia), 1.640 grammi di peso, 7 centimetri di spessore, 166 ore e 40 minuti di lettura prevista, 34 euro. Un’opera zeppa di imperdibili dettagli che ha invecchiato dalla sera alla mattina l’arido Who’s who?, il dizionario biografico dei contemporanei compilato per la prima volta nel 1848 a Londra, tuttora pubblicato in vari Paesi, e che ha reso onore alla memoria dell’editore modenese Angelo Formiggini, ebreo, autore del Chi è? uscito nel 1928, il quale dieci anni dopo si uccise gettandosi dalla Ghirlandina per protestare contro le leggi razziali che l’avevano privato dell’azienda e della casa.
Sul biglietto da visita di Dell’Arti dovrebbe star scritto «giornalista con archivio», cioè dotato del bagaglio imprescindibile per chi abbia scelto di cimentarsi nella professione con serietà, così come su quello di Cesco Baseggio e di Memo Benassi c’era la dizione «attore con guardaroba». Non dev’essere un caso che a questa seconda categoria appartenessero suo padre Consalvo, brindisino, morto nel 2005, e sua madre Carla Roinich, originaria di Pola, 89 anni compiuti da pochi giorni, che giravano i teatri d’Italia facendo prosa e rivista con piccole compagnie. Fino alla prima elementare, frequentata in cinque città diverse, Giorgio fu un apolide. I Dell’Arti non avevano nemmeno una casa. «Da neonato dormivo nei retroscena, dentro un baule che mia madre aveva adattato a culla. Da bambino mi facevano ballare il tip tap durante le prove per sentire come rispondeva l’acustica del teatro. Vengo dalla fame. Lessi la disperazione negli occhi di mio padre il giorno in cui Totò morì d’infarto: era un sabato di aprile del 1967 e il martedì successivo avrebbero dovuto girare insieme un carosello televisivo. Addio paga».
Nel Catalogo dei viventi non ho trovato la voce che la riguarda. Chapeau! Vogliamo rimediare?
«Dell’Arti Giorgio, Catania 4 settembre 1945. Figlio unico. Sposato e separato. Due figlie: Lucrezia, giornalista, e Arianna, aiuto regista. Vive a Roma con Lauretta Colonnelli. Ha lavorato a Paese Sera e a La Repubblica, dov’è stato il primo direttore del Venerdì, che ha lasciato per mettersi in proprio con l’agenzia di service giornalistici Vespina. Attuale proprietario di Farabola, che ha rilevato soprattutto per l’archivio fotografico storico, il secondo per importanza dopo Alinari».
Com’è arrivato al giornalismo?
«Per caso. Laureato in filosofia della storia, m’ingegnavo insegnando l’italiano ai diplomatici dell’ambasciata americana di Roma. Causa guerra nel Vietnam, i fondi furono ridotti e mi ritrovai a spasso. Mio padre era stato presentatore all’Eiar con Antonio Ghirelli, direttore del Corriere dello Sport. Controvoglia, gli telefonò. Appena Ghirelli udì la sua voce, si mise a piangere. Andai a presentarmi. “Ricòrdati che il giornalismo sta alla letteratura come la prostituzione all’amore”, fu il viatico. E mi spedì da Giorgio Cingoli, direttore di Paese Sera, che mi prese senza stipendio dicendomi: “Si scordi di poter essere assunto”».
Invece dopo due anni la assunse.
«Io manco compravo il giornale tutti i giorni. Mi fecero disegnare una pagina. Era una schifezza, ma uscì lo stesso in edicola. Questo per dire che allora la grafica non aveva l’importanza esasperata che ha oggi. I lettori non si rendono conto di quanto bianco gli viene venduto. L’esperienza del Foglio dei fogli nasce così, dalla sfida di far stare in otto facciate le 56 pagine del Corriere».
Complimenti.
«Oggi i direttori guardano le pagine come se fossero quadri. Editori e art director pensano che i giornali siano comprati ma non letti. La qualità dei testi è l’ultima preoccupazione. In tanti anni ho assistito a infiniti dibattiti sulla grafica, però mai, dico mai, sul modo di scrivere. Ho proposto a un importante editore un supplemento per il suo giornale. Me l’ha rifiutato. Sa con quale motivazione?».
No, però me la immagino.
«“La carta non va più”. Ma come? Il tuo lavoro è vendere parole stampate su carta, questo significa fare l’editore. Se mi dici che la carta non va più, significa che il tuo mestiere è finito».
Ha mandato in libreria il Catalogo dei viventi il 2 novembre. Poco beneagurante.
«Al contrario. I morti ci proteggono. Non vedo la morte come una nemica. Anche se come titolo io avevo suggerito I vivi. Ma tutti, a cominciare da Giuliano Ferrara, mi hanno dato del matto: “Porta iella”».
Voglio vederli quando gli propinerà il Catalogo dei morenti.
«Ma è questo, no? Viventi e morenti sono la stessa cosa. Non c’è vivente che non sia anche morente».
Glien’è morto qualcuno mentre andava in stampa?
«Più d’uno: il regista Pontecorvo, il cardinale Pompedda, Mario Merola. Il tasso fisiologico di decessi in un villaggio di 5.000 persone è di un paio a settimana. Alla Fallaci e a Facchetti siamo riusciti a fare il funerale, accompagnato dal grido di dolore di Parrini: “Ci hanno massacrato la lettera F!”».
Che tipo è Parrini?
«È un livornese di 36 anni. Appena laureato alla Bocconi, mi ha cercato: “Io devo lavorare con lei”. Da allora ha sempre lavorato solo con me. L’ho rivisto pochi giorni fa. Erano cinque anni che non c’incontravamo».
Come sarebbe a dire?
«Massimo ha sposato una bocconiana che gira il mondo per la Colgate. Hanno vissuto cinque anni a Hong Kong. Poi la moglie è stata trasferita a Lisbona, dove oggi vivono. Lui lavora da casa, entra nel nostro archivio con Internet, scrive, taglia, impasta. Ha un caratteraccio, ma è la mia vera fortuna. Un dono piovuto dal cielo».
Quindi non serve che i giornalisti vadano in redazione tutte le sere a spettegolare.
«Certo che no. Basta qualche capo e qualche editor a insaccare il materiale. Tutti gli altri, fuori. Scriveranno e titoleranno da dove più gli garba. C’è una logica stantia che presiede alla fattura dei quotidiani. Che senso ha avere organici di 400 e passa redattori? Oltretutto questo impedisce il ricambio. Nei giornali è totalmente assente il punto di vista giovanile. Mia figlia è del 1975 e aspetta un figlio: che le frega delle paginate di rievocazione dei fatti d’Ungheria del 1956? Già sono poco interessanti per me, che all’epoca avevo 11 anni».
S’è inventato un mestiere che non esisteva: utilizzatore del lavoro altrui.
«Copiatore di professione. Però esisteva già. Picasso andava ogni mattina in discarica a recuperare roba buttata via. La scimmia con il suo cucciolo, una delle sculture più celebri, l’ha fatta con due vecchie automobiline trovate nell’immondizia. Passate 24 ore, forse prima, il giornale diventa una gigantesca discarica inutilizzata. Ma non inutilizzabile. Oggi è impossibile non sapere un fatto. Per cui l’importante non è dare le notizie, ma selezionarle. Quando una cosa l’ha già detta bene un altro, non c’è ragione di riscriverla male. Picasso diceva: “Il genio copia, il mediocre imita”. Ci credo».
Di quale collega non si perde mai un pezzo?
«Esclusi i presenti? Aldo Cazzullo. Ma per la scrittura il più grande giornalista italiano è Stefano Malatesta. Che però non è governabile, deve andare per conto suo, un po’ come Lorenzetto».
Questa me la deve spiegare.
«Lorenzetto è una testata. Sai già che pagina farà, è una garanzia. Prendere o lasciare».
Il miglior direttore chi è?
«Carlo Verdelli, Gazzetta dello Sport».
Perché ha inserito nel Catalogo un cavallo?
«Perché no? Varenne è vivente, è italiano, è notevole. L’ho fatto per ricordare a me stesso che sono homo sapiens con un nome e un cognome. Apparteniamo tutti a una specie».
Qual è il suo articolo di cui va più orgoglioso?
«Quando riprendo in mano i vecchi pezzi mi sembra di non essere più capace di scrivere, mi prende uno scoramento, ma uno scoramento...».
Allora?
«Forse un’inchiesta che feci per Epoca dietro le quinte di Non è la Rai, il programma di Gianni Boncompagni con Ambra Angiolini, Irene Ghergo e Sabrina Impacciatore. Accertai che le calze indossate dalle ragazze, marca Bombana, dopo due puntate le buttavano via. A programma finito, ne avrebbero consumate 15.000 paia. Però m’è venuto bene anche un articolo di fisica sulla struttura della materia, flusso o particella?, scritto per un supplemento di Repubblica».
Ha qualche scoop all’attivo?
«Uno in Tv, da giovane. Durante una Tribuna politica costrinsi Flaminio Piccoli ad ammettere che Michele Sindona aveva dato due miliardi e mezzo alla Dc. Tangentopoli era di là da venire. Il Corriere mi citò in prima pagina».
Lei ha detto: «Le parole per me scottano e voglio adoperarne il minor numero possibile». Invece Nino Nutrizio, fondatore della Notte, insegnava: «Un articolo brutto è sempre troppo lungo, un articolo bello è sempre troppo corto».
«Diciamo la stessa cosa. Guerra e pace è breve, certe trame di film in cinque righe sono lunghe. L’Infinito di Giacomo Leopardi dice tanto con poco. È il segreto della poesia. Italo Calvino ne dava questa definizione: “Mettere il mare in un bicchiere”».
Ha dichiarato che Berlusconi è la voce più lunga del Catalogo. Non è vero. Prodi: 949 righe. Berlusconi: 929.
«L’ho scoperto dopo. M’era venuta molto più lunga la biografia di Berlusconi. Nel tagliarla ho esagerato».
Non dipenderà dal fatto che lei è stato iscritto al Pci?
«Ne sono uscito nel 1979, non ho più nessuna simpatia per i comunisti. Però da loro ho imparato un sacco di cose».
Per esempio?
«Il concetto di dirigente. Il capo litiga all’interno ma non fa trapelare nulla all’esterno. L’esatto contrario di ciò che avviene nei Ds. Il dirigente aveva l’ultima parola su tutto. Quand’era segretario del Pci torinese, Piero Fassino a una riunione vide Livia Turco con gonna marron, golf blu, calzettoni a strisce e zoccoli. Seduta accanto, un’amica conciata nello stesso modo. Disse loro: “Compagne, questi sono i soldi per due biglietti. Andate a Parigi e guardate come si vestono le donne”».
Perché ha maltrattato Walter Veltroni?
«Racconta un sacco di balle. Come la storia del cancellino tirato in testa al preside nel 1968. Il preside gli avrebbe chiesto: “Chi si crede di essere?”. E lui avrebbe risposto: “Il mio nome è Bond, James Bond”. Peccato che sia stata Paola Balducci, compagna di scuola del fratello maggiore di Veltroni, a tirare il cancellino al preside. Walter non era nemmeno in età da liceo. Io gli voglio bene. Gli correggevo i comunicati della Fgci quando aveva 14 anni. Ma è ossessionato dalla propria immagine. Si circonda d’una pletora di addetti stampa che gli tengono buoni i giornali. Anche quest’ultima balla che sta cercando Dio... E dai!».
È vero che il suo hobby è fare soldi?
«Lo dico per suscitare l’invidia dei colleghi. Li fa impazzire. In realtà sul conto in banca avrò 20.000 euro. Il mio unico piacere è il lavoro».
Come mai sul Foglio del lunedì ci sono rubriche fisse per gli amori e i delitti e non, chessò, per le conversioni o gli atti di generosità?
«Adamo ed Eva copulano. Poi Caino uccide Abele. Amore e delitti sono i fondamenti del genere umano».
È sicuro che i viventi notevoli ci siano tutti nel Catalogo?
«No, tutti no. Quasi».
Non ho trovato Federico Faggin, vicentino, padre del microchip.
«Ecco, vede? Adesso che me lo dice, me lo ricordo».
Non ho trovato Pierluigi Zappacosta, teatino, inventore del mouse e fondatore della Logitech.
(Inarca il sopracciglio). «Ha ragione».
Non ho trovato Paola Rizzoli Malanotte, veneziana, che insegna al Mit di Boston ed è forse la massima esperta mondiale di maree.
(Si gratta l’orecchio). «Manca anche Luca Mercalli, il noto meteorologo».
Non ho trovato Marco Furlan, uno dei due di Ludwig, condannato per dieci delitti.
«Aaah, ancora più grave!». (Si afferra il naso, poi la stanghetta degli occhiali). «Non ho giustificazioni. Comunque preferisco un libro incompleto ma aggiornato, piuttosto che uno completo ma già vecchio all’uscita».
Si tranquillizzi. Ho faticato una settimana per riuscire a trovare qualche assente.
«Meno male, la prego di scriverlo».
Che riflessioni le suggerisce il fatto che Sabrina Ferilli abbia il doppio delle righe riservate a Sergio Marchionne, l’amministratore delegato che ha salvato la Fiat?
«La Ferilli è più popolare. Se interpello 100 passanti, 98 conoscono la Ferilli e solo 50 Marchionne, 50 a voler essere ottimisti».
Ma allora che significa «notevoli»?
«Bella domanda. Che sono stati notati dagli autori. I quali, essendo umani, possono non aver notato qualcuno che andava notato. Di questo chiedono scusa».
Mi compili alcune voci brevi. Paolo Mieli.
«Inventore del cerchiobottismo, cioè la terzietà rispetto a due poli contrapposti. Negata nei fatti dalla scelta di schierare il Corriere col centrosinistra alla vigilia delle elezioni».
Eugenio Scalfari.
«Il più grande giornalista del ’900». (Ride). «Rido perché fa ridere, ma Scalfari ci crede. Inventore dell’estetica del giornalismo. Eugenio ha un pensiero forte su come si fa il prodotto giornale. Ho imparato da lui».
Giuliano Ferrara.
«Con Scalfari, l’unico che ha indicato una nuova via per il giornalismo. Fine scrittore. Uomo di una liberalità commovente».
Gianni Riotta.
«Innovatore del Tg1. Sta facendo un ottimo telegiornale. Ha il merito d’aver riportato in video Enzo Biagi. È stato un pezzo di grande televisione: facendoci vedere un anziano signore balbettante, ha chiuso qualsiasi discorso sul ritorno di Biagi in Tv».
Fausto Bertinotti.
«Un vanesio travestito da rivoluzionario. Non mi piace. Conservatore fra i peggiori. Pessimo che continui a far politica, pessimo che non riesca a star lontano dal video. Diventi irraggiungibile, per una volta. Impari da Mario Draghi».
Alfonso Pecoraro Scanio.
«Un fessacchiotto. Un bel ragazzo».
Tracci la biografia di un collega trombone in modo da renderne possibile l’identificazione.
«Anche fisicamente? Son tanti, eh».
Provi.
«Baffoni. Capelli bianchi. Mania di scrivere in prima persona. Intimità con gli Agnelli proclamata a ogni occasione. Il più trombone di tutti».
(353. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti