«Ho sempre scritto pensando a Milano»

I l professore è raffreddato. Dice che sicuramente è stato il primo della stagione ad essere colpito qui a Milano. Poi ci scherza su: magari con un po' di rosso delle Langhe gli passerà tutto. Perché oggi ad Alba la giuria del Grinzane Cavour lo premia, con la seguente motivazione: «A Roberto Vecchioni - illustre cantautore italiano, popolare e raffinato al tempo stesso, capace di divertire e commuovere - viene riconosciuto il merito di aver promosso, valorizzato e difeso il territorio, attraverso una poetica interessata a cantare le vicende e le gesta degli uomini, le loro tradizioni e le loro radici. Nella sua lunga carriera ha saputo muoversi tra musica e letteratura, utilizzando con abilità parole e note che celebrassero il legame con le proprie origini». Milanese, classe 1943, professore di greco, latino, italiano e storia al classico - per anni al Beccaria - il Professore gira una simbolica quota del premio anche alla sua città.
Professore, ma quanto c'entra Milano con le sue canzoni?
«Le mie canzoni sono state scritte quasi tutte nei "miei posti" di Milano. Per scrivere non sto mai fermo: giro, memorizzo, canto con me stesso. Conosco le strade di Milano come le mie tasche, è come giocare sempre in casa. Poi alla fine della giornata metto tutto nero su bianco. Così lo sfondo dei temi esistenziali delle mie canzoni è sempre Milano».
Perciò ogni canzone le ricorda un posto?
«Quasi sempre. Ne ho scritte tante nei ristoranti cinesi. Una, "Figlio figlio figlio" l'ho pensata mentre ero da solo in piazza Duomo: poteva venirmi in mente solo in un posto vasto e largo come quello».
In tante canzoni si rivolge ai ragazzi...
«Perché spesso le ho scritte nelle scuole dove insegnavo. Mentre andavo a Cesano Maderno nella nebbia, scrivevo "Alighieri". Al Beccaria ho scritto "Sogna ragazzo sogna", che era proprio dedicata ai ragazzi milanesi, che non devono perdere l'umanesimo».
E le canzoni d'amore dove le ha scritte?
«Tanti anni fa mi innamorai di una ragazza che abitava in piazza Siena e continuai ad andare lì anche quando non eravamo più insieme. Guardavo le sue finestre e parlavo con la piazza, come fanno i matti. Ne è nata "Il bene di Luglio", che ha cantato anche Lauzi. E poi tante le ho scritte nelle "caves", quando facevo cabaret coi Pan Brumisti: al Lanternino, al Clochard, alla Bullona».
È proprio tutto cambiato?
«Quella Milano non esiste più. Adesso è un'altra città che io amo per inerzia, come abbrivio. È cambiata la gente, l'attesa delle cose, la partecipazione, i luoghi, la musica, che non esiste più. Non ci sono più nemmeno gli zanza: uscivano da San Vittore ma non facevano male a nessuno. Era la Milano dell'Ornella, di Jannacci e Gaber».
E i ragazzi oggi dove vanno?
«Vanno all'Arco della Pace, alle Colonne di San Lorenzo, sentono l'iPod e parlottano. Ridono delle cose di cui noi piangiamo. Piangono delle cose di cui ridiamo. Si vendicano, si annoiano, sentono scuola e arte come cose astratte».
Alla montagnetta come in "Luci a San Siro" non ci vanno più?
«Negli anni Sessanta si poteva andarci in Seicento con la ragazza, a limonare o anche a far l'amore e nessuno ti disturbava. Ma già allora sentivo nostalgia per una città che stava cambiando. Sarà per questo che la canto ancora come battaglia contro la vecchiaia, per difendere il territorio che amiamo dai compromessi».
Nell'ultimo album, lei, figlio di napoletani, si è cimentato anche con il milanese.
«“Mund lader" è la storia di un operaio dell'Alfa Romeo degli anni Duemila.

La sua ribellione contro quello che lo frega. Per primo il padrone, che non per forza è di destra. Può essere anche di sinistra».
Ma lei Milano la lascerebbe?
«Mai. E' la mia città. Anche se a volte devo fare degli sforzi per ricordarmi che è bella».

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