«Ho ucciso io quella lucciola» I giudici non gli credono, assolto

Già in cella per omicidio, ammette un secondo delitto per «vantarsi»

Di solito, in un processo per omicidio, i giudici non credono all’imputato quando si proclama innocente. E questo è il classico «cane che morde l’uomo». Ma questa volta in Corte d’assise d'appello, è successo che fosse «l’uomo a mordere il cane» e cioè l’imputato confessa un delitto, ma non viene creduto e di conseguenza assolto.
Protagonista della vicenda Goffredo Granata, 32 anni, già reo confesso del delitto di un prostituta ma a lungo sospettato di essere il serial killer attivo alla fine degli anni ’90 tra la Brianza e Bergamo. Dove avrebbe ucciso almeno cinque lucciole e rapinato un’altra mezza dozzina. E una volta in cella avrebbe confessato a un detenuto uno dei suoi delitti, venendo poi denunciato. Ma il suo legale Raffaele Della Valle è riuscito a convincere i giudici che si trattava solo delle fantasie di un mitomane.
Che Granata sia un personaggio strano non ci vuole molto a capirlo. Figlio unico di agricoltori, abitanti a Dovera in provincia di Cremona, vicinissimo dunque a Brianza e bassa bergamasca, ha un debole per le lucciole. Da maggio a luglio 2000 tra Settala e Trucazzano ne avrebbe avvicinato quattro, portate in aperta campagna, minacciate con un coltello. Quindi le avrebbe picchiate, spogliate nude e fatte rimanere in piedi. Poi le avrebbe rapinate dei soldi con i quali il giorno dopo avrebbe offerto da bere agli amici al bar.
A ottobre Granata è arrestato dai carabinieri di San Donato per aver aggredito quattro lucciole. E subito sospettato dell’omicidio di almeno altre cinque: tre albanesi, un’italiana e una nigeriana. Alla fine riuscirono a contestargli il delitto di una delle albanesi, Laureta Frida, 31 anni, uccisa a Settala il 24 giugno 2000. Che lui stesso raccontò in aula: «Ho bisogno del coltello, devo puntarlo alla gola per eccitarmi. Non volevo uccidere Laureta, lei prese paura, ebbe un movimento brusco e si infilzò da sola».
Alla fine tra aggressioni e omicidio, l’uomo rimediò 25 anni di galera, a cui si aggiunsero poi altri 24 inflitti dalla Corte D’Assise per la morte di Donata Landi, assassinata a colpi di pietra a Masate il 10 novembre del ’97. E lui in carcere si vantò del delitto con un compagno di cella che lo ascoltava tenendo in mano una penna in cui era celata una microspia. E in primo grado, nonostante l’uomo avesse ritrattato, venne condannato.
Ieri dunque l’appello, con l’avvocato Della Valle impegnato a convincere i giudici dell’innocenza del suo assistito. Il legale infatti ha fatto una serie di riscontri scoprendo che effettivamente il racconto dell’imputato non corrispondeva con la ricostruzione ufficiale dell’assassinio.

Dunque la sua confessione era solo la fantasia di una mente malata. E che Granata non ci stia molto con la testa lo dimostrano altre sue dichiarazioni tipo «In carcere ho trovato la mia vera dimensione e l’amore», un viados conosciuto a San Vittore. Inevitabile l’assoluzione.

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