"Ho visto Fini e la Tulliani fare il progetto con il designer"

La testimonianza dell’impiegato: "Chiunque sia stato in negozio in quei mesi li ha notati In azienda sapevamo che preventivi e ordini erano per l’appartamento di Montecarlo"

"Ho visto Fini e la Tulliani fare il progetto con il designer"

Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica

Roma L’anonimo ha un nome, Davide, e ha un cognome, Russo. Fino a due giorni fa lavorava al centro arredamenti sulla via Aurelia, a Roma, in cui Gianfranco Fini ed Elisabetta Tulliani hanno, nel corso del 2009, fatto un po’ di acquisti. Davide è nel mondo dell’arredamento fin da ragazzo. Ha lavorato in tutt’Italia, prima di approdare in quel negozio alle porte della capitale. La tv, nella stanza accanto, rilancia la reazione di Fini al titolo del Giornale di oggi: «Delirio diffamatorio». Davide non nasconde una certa ansia. «Spero che nessuno pensi che io abbia voluto diffamare qualcuno. Ho solamente raccontato quello di cui sono stato testimone sul posto di lavoro, tra l’altro insieme a mia moglie, che nel 2009 ha lavorato lì con me». Con lui avevamo parlato cercando di contattare l’azienda. Si era trincerato dietro un classico «no comment», ma aveva aggiunto: «Mai fatto spedizioni o consegne per Fini a Montecarlo». Sono seguite altre telefonate, e un fax del direttore del Giornale che chiedeva d’essere messo in contatto con la titolare del centro arredamenti. Lì è successo qualcosa: «Ho pensato che, di questo passo, l’azienda avrebbe finito per apparire coinvolta o complice di una vicenda dalla quale era estranea», spiega ora Davide. «Rispettavo la linea aziendale della riservatezza, anche non condividendola. E ho deciso di raccontare quello che avevo visto, ma non da “interno”. Ho scritto una lettera di dimissioni, l’ho lasciata sul tavolo della titolare, che è in ferie, e ho deciso di richiamarvi, di dirvi quello che sapevo. Senza accusare nessuno, senza aggiungere una virgola a ciò di cui sono a conoscenza per il fatto di lavorare lì».

Insomma, si riconosce nei virgolettati che il Giornale ha pubblicato ieri?
«Certo, sono le mie parole. Voglio solo precisare una cosa: non ho seguito direttamente l’affare come coordinatore di questo progetto d’arredamento, né lo ha fatto mia moglie. Ma ovviamente ne ho seguito lo sviluppo. Come testimone, non come attore».

Ha visto Fini e la Tulliani lavorare a preventivi e progetti con i suoi colleghi?
«Sì, non sono il solo. Chiunque ha lavorato per il negozio in quei mesi ha visto la Tulliani farci visita parecchie volte. È una cliente “storica” del centro arredi, non trovai strano che si fosse rivolta a noi per arredare un altro immobile».

La presenza di Fini non destò la sua attenzione?
«Mi incuriosì, ma sapendo che la Tulliani era la sua compagna mi sembrò normale che la accompagnasse. Semmai era un evento di prestigio: fa piacere annoverare qualche volto noto tra i clienti, è una delle regole del commercio. Per questo ripeto: le loro visite non sono mai state un segreto: avere la terza carica dello Stato nella propria clientela, anche se mi risulta fosse lei a pagare, non è cosa che peggiori gli affari».

Il progetto era per la casa di Montecarlo, quella di cui da settimane si parla?
«La certezza non posso averla. Quello che so, e che si diceva tra colleghi all’interno dell’azienda, è che preventivi, ordini, progetti d’arredo erano per un appartamento non italiano. Si parlava apertamente di una “casa a Montecarlo”, quando ci si riferiva ai preventivi della Tulliani. E dopo il passaggio alla fase progettuale, con gli arredatori per cucina e altri ambienti, quella localizzazione fu confermata dall’esigenza di cercare uno spedizioniere di fiducia».

Il negozio offre trasporto e montaggio. Perché uno spedizioniere esterno?
«Non c’era solo da organizzare la logistica per il trasporto degli arredi comprati in negozio, che l’azienda avrebbe potuto curare in proprio. Era stata fatta presente alla direzione dell’azienda l’esigenza di spedire, con i mobili, anche altri materiali, a me personalmente fu detto per esempio che c’erano pallets di maioliche. Vista la destinazione e la natura del carico, si cercò un vettore esterno all’azienda, meglio attrezzato per quel tipo di trasporto. Il compito di cercare lo spedizioniere fu assegnato a diversi impiegati, e tra questi anche a me. Mi misi alla ricerca di un mezzo per il trasporto, ma ammetto che non riuscii a trovarlo».

Come mai?
«Il lavoro andava fatto sotto festività, non ricordo se quelle di Natale o dell’ultima Pasqua. Di certo i trasportatori erano pieni di impegni. Non so se poi qualcun altro abbia individuato lo spedizioniere, o se se ne siano occupati direttamente loro, i clienti».

Spedizione per dove?
«Di certo per l’estero. Non ho difficoltà a dire che, basandomi su quanto ci dicevamo nel negozio, nessuno dubitava che la meta fosse Montecarlo. Ma l’input per la ricerca era: spedizione oltreconfine».

Torniamo a Fini. Accompagnava Elisabetta e andava via?
«No. Fini nelle due occasioni in cui io l’ho visto in negozio era sempre accanto alla compagna, anche se quella più partecipe era lei, che d’altra parte è venuta in negozio molto più frequentemente. Io Fini l’ho sicuramente visto seduto al tavolo, accanto a Elisabetta e a uno degli arredatori che lavorava al progetto di uno degli ambienti di questa casa. Stiamo parlando di un negozio open space, non ci sono pareti o ambienti chiusi, ed essendo aperto al pubblico direi che probabilmente l’avranno visto anche i clienti, se la memoria non mi inganna era un sabato».

Parliamo di quando il presidente è arrivato in Smart nera e senza scorta?
«Esattamente. Un dettaglio che ho notato per un mio vizio. Fumavo sul balcone quando l’utilitaria è arrivata nel parcheggio e ne sono scesi Fini e la sua compagna».

Si rende conto del peso di quello che lei e sua moglie state dicendo?
«No, stiamo soltanto raccontando quel che abbiamo visto. Potevamo tenerlo per noi, anche perché da fine luglio, quando la storia della casa di Montecarlo è finita sul Giornale, lì in negozio quell’affare è diventato un tabù. E non se ne è più parlato».

I vertici dell’azienda vi hanno imposto il silenzio?
«No. Direi che hanno chiesto riservatezza su un argomento che fino a due settimane fa non era affatto riservato. La linea ufficiale, poi, è diventata: non abbiamo nulla da dire, non abbiamo spedito o consegnato nulla a Montecarlo».

Che poi in sé è vero.
«Certo. E anche se fosse, sarebbe solo una normale transazione commerciale. Il negozio, è chiaro, non c’entra nulla con gli aspetti controversi di questa storia.

Anzi, se alla fine ho deciso di farmi avanti, è anche per tutelare un’attività commerciale a cui sono legato, affezionato. Capisco che loro preferiscano tenere il punto, finché potranno. Io mi sono svincolato proprio per non coinvolgerli».

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