Howe: «Sarò leggero e forte come Carl Lewis»

«Temo solo il mio corpo. Andando ai Giochi mi sono liberato dall’oppressione delle Olimpiadi»

Riccardo Signori

È ancora lì che lotta, sempre con lo stesso avversario: se stesso, i suoi muscoli delicati, il piede malandrino, la voglia di essere grande e di avventurarsi nell’atletica che conta senza più fermarsi. Andrew Howe, l’italiano con sangue americano e la parlata romanesca, è cresciuto: in tutti i sensi. Età, fisico, maturità. Lo dice chi lo segue, lo dice pure lui. Eravamo rimasti alla pista olimpica di Atene: un sogno appena accennato. Ora si riparte, è l’anno dei mondiali. Ma prima ci saranno il Golden gala e tutto quanto gli verrà concesso dalle sue fibre traditrici.
Howe, infortuni a parte, è cambiato qualcosa?
«Per ora sto cambiando io. Fisicamente, intendo. Ho variato l’allenamento, ho aggiunto pesi, aumentato l’intensità, aumentato l’esplosività. Fatico con un lavoro più pesante per trovare forza, ma rimanere dello stesso peso».
Significa che sarà più armadio e meno fuscelletto? Ad Atene il confronto fisico con gli sprinter era proprio impari...
«No, cercherò di restare fuscelletto. Dipende da quello che ti serve. Io devo rimanere leggero, non posso diventare muscoloso come un Linford Christie o uno Shawn Crawford. Per come sono fatto, sono fatto bene. Piccolino, ma giusto. Quelli così grossi chissà cosa prendono. Eppoi non fa piacere portarsi addosso tutto quel peso».
Quelli grossi vincono di più. Salvo aiuti d’altro genere...
«Ed io quest’anno accresco la forza, non la massa. Me la caverò con la leggerezza. Come Carl».
Carl chi?
«Carl Lewis, ovvio. Era la metà di Ben Johnson, ma alla fine facevano gli stessi tempi. Lewis contava su agilità e leggerezza, in aggiunta alla forza».
Dopo le olimpiadi è cambiato qualcosa. Magari ha accresciuto la fama?
«No, direi invece che sono tornato nei ranghi. Sono sempre lo stesso, magari più sicuro ad affrontare le gare internazionali. Anche più tranquillo. L’unica ansia mi viene dall’altro problema».
Gli infortuni?
«Appunto, vorrei cominciare a gareggiare sul serio. Invece ho un edema tra due fasce muscolari: non si riassorbe e appena sforzo mi procura crampi».
Forse i Giochi sono stati un fuori programma che ha lasciato conseguenze fisiche? Quella microfrattura...
«Quella è come una ferita che non si rimargina mai. La tengo sotto controllo. In realtà l’anno passato mi ero preparato per i mondiali juniores, non per i Giochi. Avevo l’occhio sul lungo. Sui 200 metri non mi sentivo sicuro».
Sempre deciso a tener botta sul lungo e sui 200 metri?
«Il lungo mi sta nel cuore, fin da quando ero piccolo. È la specialità che mi piace più di tutte. Cercherò di provarmi in entrambe. Del resto, saltare lontano senza avere velocità è impossibile. Dunque le due cose si integrano. Eppoi sento come un dovere provare entrambe. Una mia necessità interna. Se non lo facessi resterei con un punto interrogativo in testa, un rimpianto: e se l’avessi fatto come sarebbe andata?».
Fra l’altro, fuori pista, le sue attività sono diverse e variegate: suona in un gruppo, fa break dance...
«Con la break dance ho chiuso: l’ho lasciata perché mi facevo male. Preferisco ballare con persone normali. Invece continuo a suonare la batteria in un gruppo di quattro elementi. Aspettiamo ingaggi».
Quest’anno c’è stato chi le ha dedicato un film amatoriale...
«Vero, lo ha fatto Chiara Minardi. È molto bello, molto reale. Fatto con il cuore. Racconta di quando crescevo. Nello sport ci vorrebbero altre cose così».
Dopo i film ci vogliono i successi. Quest’anno a Helsinki dove vuole arrivare?
«Alla finale dei 200 e del lungo: quello sarebbe un successo».
Senza dimenticare l’ottica più lontana. Obiettivo Pechino?
«Piano, piano: facciamo un passo dopo l’altro. A Pechino avrò 23 anni. Intanto voglio essere molto competitivo quest’anno».
Se dovesse dire: temo soprattutto...
«Il mio fisico. Tutti abbiamo sempre paura di farci male. Però so che, alla fine, la gamba guarirà e non avrò altro da pensare. Una volta in pista, mi dimenticherò piede e gamba».
E ripenserà a quel giorno sulla pista di Atene?
«Quell’esperienza mi ha fatto crescere, mi ha dato la possibilità di affrancarmi dall’oppressione dell’olimpiade».
L’olimpiade opprime?
«L’olimpiade spaventa per la sua grandezza. Invece bisogna arrivarci come fosse qualcosa che hai già vissuto: per esempio, i miei mondiali juniores a Grosseto. Se non pensi così non vai più avanti».
Ma ci sarà qualche flash indimenticabile?
«Certo, quando sono entrato nello stadio. Eppoi la gara, tutta la gente sopra di te. Non mi ero neppure reso conto di essere andato forte. Come fossi da un’altra parte, in un’altra dimensione».


E da allora, è cambiato qualcosa dentro Andrew Howe? Se dovesse dire chi è oggi questo ragazzo di appena vent’anni?
«Direi che è determinato a mille, un po’ cinico, anche molto scettico. Qualche volta è modesto. Ma ha tantissima grinta. Mette i paraocchi e va avanti».

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