La Cassazione torna ancora a parlare di jeans nei casi di violenza sessuale. E lo fa ribadendo che questo indumento non può impedire che una persona possa subire atti molesti «perché i jeans non sono paragonabili ad una specie di cintura di castita». Il caso riguarda un uomo di 37 anni condannato perché aveva compiuto atti di libidine nei confronti della figlia minorenne della sua compagna, toccandola nelle parti intime, infilando le mani dentro ai pantaloni. Luomo, condannato ad un anno dalla Corte dappello di Venezia, aveva presentato ricorso che è stato respinto. Il tema blue-jeans è stato più volte affrontato dagli ermellini soprattutto dopo una sentenza-choc della Terza sezione penale, nel febbraio 1999, che stabiliva che nel caso di una donna con i jeans non si potesse parlare di stupro. Scriveva infatti la Suprema corte: «è dato di comune esperienza che questo tipo di pantaloni non si possono sfilare nemmeno in parte, senza la fattiva collaborazione di chi li porta». Fioccarono le polemiche, ma la Cassazione prese subito le distanze da questo verdetto per far sì che la sentenza n.1636 rimanesse un caso isolato. E infatti a novembre dello stesso anno questo orientamento fu ribaltato in una sentenza (n.13070) dove si precisava che la testimonianza di una donna che asserisce di aver subito uno stupro «non può essere messa in dubbio perché lei indossava i pantaloni e per esserseli sfilati».
Più recenti altre due sentenze che hanno fatto giustizia per le vittime di stupro e hanno confermato le condanne nei confronti di due uomini che, nel 2001 e nel 2006 avevano tentato di giustificare latto sessuale come consenziente perché la vittima indossava lormai famoso indumento.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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