Controcultura

I capolavori che parlano di distanza e vicinanza

Il peso della solitudine in Van Eyck e in Hopper e la carnalità virale di Masaccio e Pollock

I capolavori che parlano di distanza e vicinanza

L'espressione più inquietante, di questi tempi, è «distanziamento sociale». Stare lontani, stare separati. Proviamo a chiederci chi sono i pittori che tengono le distanze e quelli che ci vengono incontro, e ci abbracciamo o ci travolgono.

La pittura ci dà risposte eloquenti, andando oltre la banalità e la coazione a ripetere che, ormai in tutti i film, drammi, commedie, polizieschi, ricostruzioni storiche, ci espone alla visione ributtante di amplessi, con intrecci di corpi e sospiri, in una vicinanza fisica che appare quasi una beffa, nei giorni in cui si è costretti in casa a guardare quello che ci è richiesto di non fare. Distanza di almeno un metro, distacco, solitudine. Quest'esperienza nella pittura ha testimoni eccellenti, forse i più grandi. Il distacco diventa poesia. Il primo è Jan Van Eyck. La sua Madonna giganteggia, solitaria, nello spazio luminoso di una chiesa gotica, di cui sentiamo il respiro monumentale, ma che è ridotta a poco più di una scatola per le smisurate dimensioni della maestosa Vergine. Inevitabile e irraggiungibile. Ma Van Eyck riesce nel miracolo di mantenere le distanze anche quando la Madonna appare, nella stanza di un sontuoso palazzo, al cancelliere del duca di Borgogna e di Bramante, Nicolas Rolin, che sta davanti a lei in ginocchio. Tutto è nitido nella luminosità di quella stanza, con un loggiato aperto sul giardino davanti a un fiume. La luce filtra dalle vetrate e dalle finestre piombate. La Madonna è lontana, distratta. Il cancelliere è assorto, quasi preoccupato, indifferente alla incongruità del lusso che la sua casa e i suoi abiti denunciano. Sono dunque doppiamente distanti: fisicamente e psicologicamente. Van Eyck non fa nulla per ridurre la distanza. E ancor di più l'accentua nel suo dipinto più noto, I coniugi Arnolfini: qui l'ambiente è mirabilmente definito, con il meraviglioso lampadario e lo specchio. I due sposi si toccano la mano convenzionalmente, ma sono incommensurabilmente lontani. La evidenza del documento, potremmo dire dell'ispezione, condotta per definire la distanza, è dichiarata nella stessa firma: Johannes de Eyck fuit hic. La identificazione del luogo, la precisione dei dettagli, l'alcova, la finestra, gli zoccoli, il cane sono così precisi perché il pittore fu lì, fece un sopralluogo nelle stanze abitate, con misura e decoro, da Giovanni Arnolfini e da Giovanna Trenta. Fu lì.

Qualche anno dopo poteva dire lo stesso Piero della Francesca, rappresentando mirabilmente una doppia distanza, fisica e storica, temporale e spaziale nella Flagellazione di Urbino. In primo piano l'imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo. Nella dimensione rinascimentale della corte di Urbino, nell'anno in cui finiva l'impero romano d'Oriente a Costantinopoli, 1453. Sullo sfondo si proietta, nello stesso spazio, ma in un altro tempo, la flagellazione di Cristo, nel ritmo pausato dei carnefici. Tutto è rallentato, distante, misurato nelle geometrie delle colonne, delle architravi, dei pavimenti. E un'incolmabile distanza, fra l'Angelo e la Vergine, si ritrova anche nella vertiginosa Annunciazione sulla cimasa del polittico di Perugia, o nella stessa pala di Urbino, ora a Brera, dove i santi sono assiepati intorno alla Vergine, ma infinitamente distanti l'uno dall'altro, e da Lei.

Uomini soli, donne sole, strade vuote, coppie che si ignorano, incomunicabilità, malinconia, sono i temi esclusivi della pittura di Edward Hopper. La distanza è fisica e interiore. Salvatore Quasimodo scriverà: «Ognuno sta solo sul cuor della terra, / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera». L'opera di Hopper è l'equivalente più evidente della nostra condizione in questi giorni, in un tempo immobile.

Dall'altra parte ci sono i pittori che ci vengono incontro, che non temono il contagio. Così è Masaccio. Camminando nelle strade di Firenze e incrociando poveri, malati e disperati, San Pietro li guarisce con l'ombra. Li tocca e si fa toccare, distribuendo l'elemosina, mentre Anania muore, e cade ai piedi del santo, perché aveva trattenuto per sé una parte dei danari destinati ai poveri.

La stessa vicinanza, nelle strade, senza paura, si ritrova in Caravaggio: nella locanda della Vocazione di Matteo stanno tutti insieme, stretti, vicini, e così nei Bari e nella Madonna dei pellegrini. Con i devoti che si inginocchiano davanti alla Vergine sfiorandola, gli uni e l'altra con i piedi nudi. E ancora nell'Adorazione dei pastori, affiancati, gomito a gomito, quasi per scaldare la Madonna con il bambino, posati a terra, sotto la precaria capanna. E, soprattutto, nelle Sette opere di misericordia, sette episodi di carità in un solo spazio, sulla strada, in un vicolo maleodorante di Napoli, da cui sentiamo salire tutte le puzze di una città sporca. Eppure noi siamo lì, con Caravaggio, senza temere malattie.

Una vera e propria immersione, fino a confondersi nella natura, intercettandone le molecole, i microrganismi, i vibrioni, i cocchi, gli spirilli, come in una visione ravvicinata o al microscopio, è quella di Jackson Pollock. Pollock cerca il contagio, all'opposto di Hopper, riduce le distanze fino ad annullarle, e noi non vediamo la realtà, ce la sentiamo addosso, come l'odore dell'erba o del muschio. Pollock, dopo l'esperienza futurista e cubista, aspira alla compenetrazione dei corpi, all'indistinto, alla fusione. Egli è, in quanto si contamina. La pittura accelera, avvicina, deflagra. La distanza è paura della vita, è alienazione, Pollock cerca l'identificazione.

Che è un ritorno, nel rischio, alla vita.

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