I dalemiani sfrattano la Bindi: abusiva la presidenza del Pd

RomaNon riuscì a trattenere lacrime di commozione, Rosy Bindi, quando la sua elezione venne proclamata davanti all’assemblea nazionale del Pd plaudente.
È passato appena un mese, ma il clima deve essere veramente cambiato se oggi le tocca leggere la perfida precisazione della dalemiana Velina rossa: «È giunto il momento di chiarire la posizione dell’onorevole Bindi nell’ambito del Pd», scrive nella sua nota quotidiana Pasquale Laurito. «Non esiste nello statuto del partito la carica di presidente: è bene specificare che l’onorevole Bindi è presidente dell’assemblea nazionale», e dunque i suoi poteri di vertice sono limitati al compito di «convocare l’Assemblea», senza «alcun titolo politico come presidente del partito».
La Velina rossa ce l’ha con «giornali e agenzie» che quotidianamente affibbiano alla Bindi una carica che non esiste, a termini di statuto. Ma sotto sotto è la stessa Rosy ad essere messa accusata di auto-fregiarsene. Soprattutto quando partecipa, «da presidente del Pd», come ha detto lei stessa, a manifestazioni cui il segretario del Pd ha voluto negare la propria adesione.
La questione dell’abuso di titolo può sembrare di lana caprina. Il posto che ora occupa la Bindi era di Romano Prodi, che lo abbandonò furioso il 16 aprile del 2008, dopo la caduta del suo governo e le elezioni con Veltroni candidato premier. Da allora è vacante. Da segretario Bersani provò a convincere Prodi a riprendersi la poltrona, senza successo. Il posto finì alla Bindi, sua alleata nella battaglia congressuale («È salita sul carro del probabile vincitore», la accusano gli altri ex Ppi), che in verità avrebbe preferito fare la capogruppo, ma ha dovuto cedere il passo a Dario Franceschini.
Un problema di convivenza con la «pasionaria» Rosy però c’è, ai vertici Pd, e lo si è visto nell’aspro contrasto tra la presidente (dell’Assemblea) e il vicesegretario Enrico Letta, che Bersani manda in avanscoperta sui terreni più difficili. Mentre lui chiudeva nettamente le porte alla manifestazione dipietrista, lei sospirava «se non fossi presidente ci andrei», costringendo alla fine Bersani ad autorizzarla. E quando lui ha aperto un primo spiraglio di dialogo sulla giustizia, riconoscendo il diritto a difendersi di Berlusconi, lei lo ha richiuso brutalmente: «Enrico è un po’ confuso». Dalle colonne di Repubblica, naturalmente, di cui è beniamina.

E probabilmente era anche a Rosy, presidente girotondina e con ideale sciarpa viola, che pensava nei giorni scorsi Luciano Violante, quando si lamentava con un collega di partito: «Ogni volta che si cerca di intavolare un dialogo costruttivo sulle riforme con la maggioranza, qualcuno al nostro interno strappa la tela e blocca tutto».

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