I disegni di Lindsay Kemp danzano come Matisse

I concetti aerei e le memorie della giovinezza si confondono in un'unica impalpabile elegia

di Vittorio Sgarbi

Danzatore? Sì, certo, in prima battuta si sarebbe portati per forza a considerarlo tale, e nessuno potrebbe avere da ridire. Ma racchiudere Lindsay Kemp (1938-2018) nel recinto di una sola disciplina espressiva finirebbe per essere troppo limitante. Per noi più ancora che per lui, essendo impossibilitati a cogliere l'effettiva dimensione di un artista che come pochi altri poteva dirsi totale. Certo, Kemp era danza, movimento, coreografia, ma anche teatro, melodramma, musica, costume, rito, illusionismo, circo, tableau vivant, body art. E non separatamente, ma in un modo così intricato fra un piano e l'altro da rendere difficile, quando non inutile, la loro distinzione. Quella di Kemp era l'arte, la grande arte dell'esibizione, dentro la quale tutto potrebbe rientrare. Basta che risulti utile a perseguire i fini di ogni grande esibizione, la fascinazione, lo stupore, l'incanto di chi sta a guardarti.

Kemp ha trent'anni quando inaugura lo spettacolo che più ce lo ha fatto conoscere, Flowers, in seguito replicato per diversi decenni in tutto il mondo, con vari adattamenti. Non era un anno qualunque, quello della prima di Flowers, era il 1968. In tempi come gli attuali, di anzianità prevalente, i trentenni sono ancora considerati dei ragazzi. Allora no, un trentenne era un adulto a tutti gli effetti. Poteva avvicinarsi ai giovani, emularli, provare perfino a riconoscersi in essi, ma apparteneva comunque a una generazione precedente rispetto alla loro, una di quelle venute al mondo prima dell'ultima guerra che veniva considerata il vero spartiacque storico fra ciò che andava ritenuto vecchio e ciò in cui doveva riconoscersi il nuovo.

Non si andava per il sottile, nel '68, o da una parte, o dall'altra. Poco serviva prendere le distanze dai propri anni, si poteva essere coinvolti nelle contestazioni a un sistema complessivo di valori e gerarchie per il solo fatto di essere nati troppo presto. Per di più, Kemp non esibiva nemmeno troppa giovinezza. Non era un capellone, anche per via di una precoce calvizie che più tardi gli avrebbe fatto preferire l'assoluta, imperturbabile liscezza della pelata. Il suo viso era già inciso da rughe di espressione che coltivava come preziosi strumenti di lavoro, allenate da sorrisi di satiresca, indimenticabile effervescenza. Nel suo corpo, pure rodato dal ricorso continuo all'esercizio, invano avresti cercato le sodezze che si riconoscevano agli atleti, notando piuttosto la sua inclinazione a una certa quale mollezza, del tutto funzionale all'incarnazione di una sensibilità estetica dal carattere straordinariamente personale.

Kemp, insomma, non poteva essere confuso con il giovanilismo culturale dell'epoca. Meno che mai i suoi spettacoli, che coraggiosamente proponevano la riedizione riabilitante di categorie espressive - tardo romanticismo, simbolismo, decadentismo - bollate dal rozzo engagement dell'epoca come manifestazioni esemplari dell'estetismo borghese più vacuo e deleterio. Presto si sarebbe trovata un'etichetta destinata a notevole fortuna, kitsch, anch'essa nata nel fatidico '68, in cui includere quell'estetismo per mischiarlo inopinatamente col cattivo gusto più popolaresco e smaccato, facendo in tal modo un'autentica opera di macelleria critica. Eppure, kitsch o non kitsch, quel Kemp eccessivo fino alla provocazione non era certo meno moderno e aggiornato di giovani in agitazione ben più austeri di lui, che infatti, quando avevano la forza di emanciparsi dai conformismi degli schemi ideologici e delle parole d'ordine (ricordo bene la difficoltà con cui la critica militante dell'epoca inquadrava il fenomeno Kemp, non sempre ritenendo che la sua strabocchevole carica di innovazione fosse compatibile col presunto senso dell'avanguardia), non potevano che sentirlo vicino.

Poco male se all'inevitabilità del futuro, alla liberalizzazione collettiva e ad altre magnifiche sorti e progressive Kemp contrapponeva la suadente morbidezza di sguardi all'indietro in cui peraltro riusciva a riversare rivoluzionari bisogni di palesamento della propria individualità, il tutto proiettato, nella magia coinvolgente della scena, in un ideale «senza tempo», da sogno senza fine, che faceva da oasi salutare rispetto a un'epoca in cui la prepotenza dell'attualità non conosceva freno. Ma la modernità di Flowers non si esauriva nella sola novità della proposta espressiva. Il prendere ispirazione dal «maledetto» Genet implicava che venissero affrontati temi impegnativi quale quello della sessualità «deviata», come allora dicevano anche quanti si credevano più progressisti, in realtà mentalmente non troppo più attrezzati dei «matusa» fascistoidi che intendevano contrastare. Pochi lo hanno trattato con la franchezza, l'orgoglio e lo splendore di Kemp, che del corpo, per la verità non solo maschile, ha fatto il campo di battaglia di estenuate ricerche volte all'esaltazione dei sensi più intensa e sofisticata, come un San Sebastiano che dalle frecce che lo trafiggono deriva continuo motivo di rigenerazione. Anche in questo, Kemp era decisamente più avanti del suo tempo, che pure si considerava evoluto.

Confesso che mi sono sorpreso, vedendo le belle e preziose fotografie che Claudio Barontini ha realizzato su Lindsay Kemp poco tempo prima della sua scomparsa, nel constatare che la sua carne, per quanto inevitabilmente stanca, portasse ancora chiarissimi i segni del leggendario '68 di Flowers. Quel suo volto provato, ma reattivo, sembrava trovare ancora la forza di vincere il peso degli anni per diventare personaggio, pronto a farsi assorbire dalla maschera, ogni qual volta si copriva di bianco come un clown di una volta, per ritrovare l'irrinunciabile conforto del suo alter ego scenico; quel suo corpo cadente, ma disteso lascivo sul letto, la veste variopinta e vezzosa, la bandana a coprire la fronte specchiante, mostrava ancora una disponibilità a farsi oggetto di spettacolo, forse anche a provocare, come faceva in passato, sostenuto da una vocazione alla sensualità che sembra ancora lontana dall'esaurirsi.

E illuminanti, per intercettarne lo spirito eternamente fanciullo, sono anche i disegni di Kemp che in questa mostra si alternano alle fotografie di Barontini. Disegni leggeri, volatili, che diresti felliniani o matissiani se Fellini e Matisse avessero prerogative rispetto agli altri esseri sensibili nel riportare in sintetica cifra grafica le fantasie che possono passarci per la testa.

Tanto sovraccarico in scena, l'impenitente incantatore Kemp, quanto ridotto al minimo indispensabile nella carta, dove i concetti più aerei e le memorie di una giovinezza sempre portata dentro - ritroviamo l'antica, mai dimenticata tel'njaka da marinaretto - si confondono in un'unica, impalpabile elegia senza precise soluzioni di continuità. Soavità, purezza, giocosità, anche in ciò che solo un depravato potrebbe giudicare peccaminoso: è questo il segreto, in fondo poco segreto, di Lindsay Kemp.

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