È difficile tradurre sul palco, pur in un adattamento che si sforzi di riprodurre con scrupolo filologico la poesia impura e tenerissima di Testori, i racconti del ciclo «I segreti di Milano». Com'è noto, oltre al «Ponte della Ghisolfa» e alla «Gilda del Mac Mahon», il ciclo comprende due copioni come «La Maria Brasca» e «L'Arialda»: tutti testi considerati - accanto al «Fabbricone» oggi rappresentato - i capisaldi dell'arte dell'autore di Novate. E questo perché i personaggi che s'incontrano in quelle pagine forsennate e strazianti sono gli eroi di unepopea, costituendo l'ideale allegoria dei vinti della terra lombarda in quegli anni Sessanta che - ma solo in apparenza, col cosiddetto miracolo economico - segnarono il riscatto dell'antica plebe di stampo manzoniano.
Sono eroi che vivono dei drammi e che mai vanno confinati nel limbo di piccoli bozzetti patetici e affettuosi. Con quelle storie incrociate di affetti rimpianti e mai consumati, vissuti nella carne di vedove e zitelle inacidite dalla vita di fabbrica, e quegli amori da corte dei miracoli contrastati dall'onore atavico della stirpe che Gianni Testori travasava in quel bellissimo impasto gergale di cui purtroppo si è perso lo stampo: tra innamorati che lottano - come i Capuleti e i Montecchi - contro la dura ideologia dei padri e la fede semplice ma ardente delle madri, sovrastati dall'assillo maledetto del denaro. La maledizione che costringe i giovani maschi a vendere a caro prezzo la carne al primo venuto «che viene dal Centro».
Questo universo che affonda le radici nel nostro passato prossimo ma lontano anni luce dalla realtà odierna, intriso com'è di orgogliosa fierezza e cieca fedeltà alla tradizione di un popolo che presto avrebbe ceduto al miraggio della piccola borghesia, va infatti trattato con molta prudenza se non si vuol cadere in una ricerca del tempo perduto patetica e fine a se stessa. Come purtroppo fanno l'adattatore Russo e il regista Marco Balbi che, alle prese con l'universo di quei diseredati che ci sono stati padri, non trovano di meglio che caratterizzarlo alla brava inseguendo i fantasmi di Toni Barlocco e Felice Musazzi. Ossia di quei Legnanesi che ci riportavano nella grana grossa del divertimento popolare, il profumo e le contraddizioni di un mondo contadino ai primordi della tentazione, e della caduta nel consumismo. È chiaro che è difficile, al di là dell'impegno di una compagnia stabile come quella che fino a pochi anni fa si produceva nel glorioso Teatrino dei Filodrammatici a due passi dalla Scala, far rivivere a pieno titolo quel mondo scomparso: ma questo non impedisce dal rimpiangere l'occasione perduta.
«Il Fabbricone», di Giovanni Testori. Fino al 27 giugno allAccademia di Brera, via Fiori Oscuri 4. Biglietti ad euro 12-18-24. Biglietteria 02-36503740. Info@tieffeteatro.it.
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