I dubbi di Feltri: «Gianfranco non lo capisco»

VECCHI TEMPI La Santanchè: «Ho militato in An per 10 anni Mai una discussione, mai un dibattito: c’era solo Fini»

nostro inviato a Cortina

Odiare o amare? Il dilemma rode la politica d’Italia, pentita per quel che è stato, trepidante per quel che sarà. Tutti vogliono spazzare via il clima di odio, le campagne di odio, i seminatori di odio. C’è una nuova virtù che tutti agognano, un reperto di Prima repubblica che sta tornando molto trendy: la moderazione. Persino Cortina chiude la sua innevata favola natalizia andando alla ricerca di questa poetica soluzione. L’ultimo incontro di «In-con-tra» si pone la domanda in modo diretto: c’è spazio, in questa strana stagione italiana, per i moderati e per la moderazione? Devono rispondere Vittorio Feltri, il nostro direttore, e Daniela Santanchè, leader del Movimento per l’Italia, sollecitati dal direttore del Gazzettino, Roberto Papetti.
Mi dichiaro subito, per evitare puerili teatrini: scrivere del proprio direttore non è simpatico. Ma in questo caso mi ritengo fortunatissimo. Perché proprio sul tema insulso della moderazione, intesa come la intendiamo noi farisei e perbenisti italioti, è come se Feltri rubasse le parole di bocca. Con il tono che l’affollata platea dei lettori ben conosce e riconosce, il direttore è molto illuminista: «Se io credo in una cosa, non vedo perché dovrei moderarmi. A tanti piace pensare il moderato come un tizio che non alza la voce, non mette i gomiti sul tavolo, non usa lo stuzzicadenti. Ma non è di questo che si parla. Seriamente, la moderazione non si sposa con la fede in un’idea». Aggiunge la Santanchè: «Con la moderazione si finisce sempre per diventare modesti». Punto. Potrebbe bastare per chiudere subito la serata, se a tutti risultasse chiaro il concetto. Che significa moderazione? Dire e non dire, fare e non fare, piacere e compiacere a chiunque? È da Erasmo, da Giordano Bruno, da Voltaire, ma anche da Gesù Cristo e da San Francesco che dovremmo averlo capito: la carica ideale non ama i mezzi toni. Viaggia molto lontana dal politically correct, questa melliflua pratica umana che ha ammorbato l’aria per troppo tempo e ancora oggi prova a infestarla. Il confronto schietto e passionale non ha nulla di peccaminoso e di diabolico. Basta capirsi sui metodi, perché risulta chiaro e solare a tutti come ci si debba fermare un paio di metri prima della violenza: ma è il caso di dirlo?
No, soprattutto oggi non c’è spazio per questo genere di moderazione all’italiana, mimetizzata e sfuggente, impalpabile e untuosa. L’abbiamo già vista e assaporata per mezzo secolo, questa moderazione doc: si moderavano, si riverivano, si scambiavano cortesie, e intanto si spartivano il bottino. Chissà perché, i De Gasperi e i Togliatti non se le mandavano a dire, quando tutto doveva ancora nascere: loro, sulle proprie idee, non applicavano alcuna imbottitura e alcuna moderazione.
Chissà perché, parlando di questo, sul palco di Cortina finisce per insediarsi stabilmente un quarto ospite. Come un fantasma. Quanto meno una presenza. Lui, Gianfranco Fini, il nuovo moderato. Caso mai a qualcuno fossero sfuggiti gli editoriali, Feltri non usa giri di parole, tanto meno falsa moderazione, per ribadire: «Io non ho nulla di personale. È a livello politico che non lo capisco più. Non è facile decriptare Fini, anche perché è come decriptare il vuoto... Davvero, nessuno sa che cosa abbia in testa Fini: comincio a sospettare che non lo sappia neppure Fini. Poveraccio, d’altronde è in un momento difficile».
Un momento, spiega il direttore, cominciato col famoso discorso del predellino di Berlusconi. «Lanciò l’idea del partito unico di centrodestra. E Fini? Chi se lo scorda. Disse: siamo alle comiche finali. Quindici giorni dopo si incontrano, e Fini è entusiasta del partito unico. Finalmente, realizza il sogno di diventare presidente della Camera. Un buon posto: maggiordomi, segretarie, auto blu. Per sei mesi, un uomo felice. Il problema però è che ci si abitua presto agli agi. Quando Fini si abitua, si accorge di non avere più un partito da comandare. Era abituato a fare il gallo nel pollaio, con An. Mai eletto: sempre proclamato. Così, adesso vorrebbe comandare di nuovo nel Pdl, ma un capo c’è già: Berlusconi. Eccolo allora cominciare l’opera: quando Silvio dice A, lui dice B. Peccato che la cosa B sia sempre della sinistra. Difatti, ogni volta che Fini apre bocca, a sinistra partono applausi, mortaretti, petardi. E ti credo...». Questo nuovo Fini, che piace tanto all’altra parte, si rivela anche nella scelta della Polverini come candidata governatrice del Lazio: «Guarda caso, a sinistra ne sono entusiasti. È amica di Fini, si è presa Velardi a dirigere la campagna elettorale, cioè un uomo di D’Alema. La verità è che il Pdl ha un grosso problema: l’ala destra gioca da ala sinistra...». E la Santanchè? Il suo controcanto è una mattonata: «Ho militato in An per dieci anni. So cosa significa la leadership di Fini: mai una discussione, mai un dibattito. Lui solo. Gli altri, al massimo, a mormorargli dietro le spalle, salvo chinare il capo al suo arrivo...».
Si parla anche d’altro ovviamente: Lega, donne in politica, giornali, Di Pietro. Ma è scritto nel destino di Feltri finire sempre in mezzo. Nemmeno il tempo di concludere un intervento ed eccogli girata un’agenzia freschissima: Cicchitto dice che certi titoli di Feltri fanno molto male al Pdl. Forse Cicchitto pensa di mortificarlo, evidentemente non lo conosce. Per Feltri, sono tutti assist: «Sono contento che il Pdl prenda le distanze dal Giornale. Io non sono la voce del Pdl. Io esprimo pareri.

Io faccio il giornalista. Io non sono un politico...». Un sorriso dei suoi, quindi: «La politica se la tenga Cicchitto, che ha pure la faccia giusta». Per la cronaca: nessuno, in sala, sembra nutrire dubbi su cosa intenda dire.

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