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I due volti di Hillary la repubblicana folgorata dal ’68

A 20 anni la Clinton era una fedelissima del conservatore Goldwater e diffidava dei Kennedy. Poi cambiò. Ma con un piede di qua e uno di là

I due volti di Hillary la repubblicana folgorata dal ’68

Quel libro a Wellesley non aveva avuto successo: troppo fuori linea. Hillary Clinton, invece, ce l’aveva orgogliosamente in cartella il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico 1965: La coscienza di un conservatore. Era il manifesto politico-culturale di Barry Goldwater, candidato repubblicano alla presidenza l’anno prima. Hillary lo aveva già letto, se lo portò come testimonianza di un’idea. Punti di riferimento. Nel Massachusetts dei Kennedy, nella iperdemocratica cintura di Boston e delle sue mille università liberal, miss Rodham in quei giorni era convinta di poter esportare la coscienza conservatrice. L’aveva già fatto a Chicago, da liceale, quando s’era infilata sul petto una coccarda del senatore Goldwater e aveva deciso di distribuire tutti i volantini che il comitato elettorale del candidato repubblicano le aveva consegnato nella campagna elettorale 1964. Giovane attivista: brava, convinta, religiosa. Figlia di un padre fedelmente repubblicano e di una provincia fedelmente conservatrice. Scuola e chiesa, famiglia e boy scout. Il New York Times è andato a cercare il passato della principale candidata democratica alla Casa Bianca nel 2008. Ha trovato l’anno della sua svolta, cioè il 1968, quello della morte di Martin Luther King e di Bob Kennedy.
Fino ad allora, al college la storia era stata diversa: con un paio di occhiali spessi, Hillary era la ragazza convinta che i cattivi fossero proprio quelli del partito che adesso rappresenta al Senato e che spera di riportare all’1600 di Pennsylvania avenue. E il primo era il sindaco della sua Chicago, Richard Daley: la signorina Rodham era certa che nel 1960 John Fitzgerald Kennedy avesse vinto le elezioni in Illinois grazie a un maneggio losco di Daley e che quel trucchetto avesse poi garantito a Jfk la presidenza. La futura signora Clinton qualche anno fa l’ha accennato nella sua biografia: «Entrai all’università con le idee dei miei genitori, uscii con le mie». Il Times è andato oltre. Ha cercato professori e amici, compagni e conoscenti. Il ritratto che ne viene fuori è quello di una ragazza che ha cambiato idea in tre anni, ma con calma. Quasi opportunisticamente. Prima di svoltare a sinistra, era stata leader del Wellesley’s Young Republicans chapter. L’organizzazione era moribonda in un’università già allora sotto l’influenza liberal. Hillary cercò di ravvivare il gruppo: reclutò ragazze che l’aiutassero a fare campagna per Edward Brooke, il primo afroamericano a essere eletto al Senato dal voto popolare. Repubblicano. Per convincere le compagne a stare dalla sua parte senza farsi notare e guardare storto dalla maggioranza di giovani democratiche, la signorina Rodham pubblicò un appello sul giornale Wellesley News: «Le ragazze che non desiderano farsi vedere a battere le mani in pubblico possono scrivere lettere e volantini a macchina o fare altro lavoro di ufficio».
Amava parlare di se stessa in terza persona, Hillary. S’era data un paio di nomignoli: the Hill e the Hill woman. Scriveva: parenti, amici, mentori. «Le mie idee si stanno liberalizzando. Sento di avere una parte conservatrice e una parte liberal». Diventare democratica non fu una scelta emotiva. Fu calcolata. Era quell’anno, quello in cui la sua generazione montava sulle barricate. Hillary scelse un progetto politico lento, quasi a voler capire dove fosse il posto giusto in quel momento. Allora da studentessa di Scienze politiche il 1968 lo passò da una parte e dall’altra. In inverno lavorò alla campagna del senatore pacifista del New Hampshire, Eugene McCarthy. In estate, invece, scelse di andare a fare la stagista a Washington, nell’ufficio del congressman repubblicano Melvin Laird.
Due anime, Hillary. Due facce ancora, quando andò alla convention democratica a Chicago e poi alla convention per la nomination repubblicana a Miami. Lì ordinò il suo primo pranzo in camera all’hotel Fontainebleu. Quei tre giorni in Florida sono l’ultima traccia conservatrice: miss Rodham scelse la massa. Scelse di essere una studentessa no-war. Non barricadiera, ma politica. Molti dicono fosse il carattere, le malelingue sono certe fosse puro calcolo.

Nella lettera di raccomandazione scritta per lei dal professor Alan Schechter c’era esattamente quello che doveva esserci: «Le sue opinioni sono mature e responsabili, piuttosto che emotive e unilaterali». Fu la frase che la fece entrare alla Law School di Yale nel 1969: era il suo obiettivo.

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