I giudici e la lotta contro la volgarità Così l’insulto si trasforma in reato

D’ora in poi bisognerà scegliere con cura la parolaccia da sfoderare al momento giusto. Quando uno ti fa saltare i nervi è meno rischioso sfoderare un bel vaff..., tondo tondo. Risulterete maleducati, privi di bon ton, ma di sicuro non rischierete di dover pagare una multa di mille euro come invece può accadervi se mandaste a «cagare» il vostro nemico del momento. La distinzione è sottile ma la Cassazione fa dei distinguo in tema di parolacce: assolve «il vaff...» e condanna il «vai a cag..». Ieri per esempio, il secondo epiteto ingiurioso è stato oggetto della sentenza numero 15.350 che ha risolto una lite tra il settantenne piemontese Giuseppe e il suo socio Vittorio che lo aveva mandato a «cagare» durante una discussione. In primo grado la partita era stata vinta da Giuseppe. Ma Vittorio non si è dato per vinto e si è appellato in Cassazione. L’anziano ha tentato di scagionarsi sostenendo che la sua era stata soltanto un’espressione di «volgare insofferenza» nei confronti del collega che, interpellato su una delicata questione lavorativa, aveva risposto con vaghezza. Insomma, secondo Vittorio la parolaccia non aveva alcuna «carica lesiva» così come altre locuzione tipo «non rompermi le scatole», che la stessa la giurisprudenza di legittimità aveva assolto in passato.
Argomentazioni inascoltate. La Corte ha confermato la condanna a 1.000 euro di multa a Vittorio. E poi ha spiegato che la frase in questione costituisce «ingiuria», perché lede la dignità della persona alla quale è rivolta, anche se viene usata durante un litigio per troncare brutalmente la discussione con qualcuno con il quale si è in disaccordo. Inoltre, nel caso concreto, i giudici di piazza Cavour hanno sostenuto che quella parolaccia era stata usata in modo «brutalmente volgare», di «scurrile e crudo frasario» che esula dall’insofferenza o fastidio. Il termine, dunque, ha una «virulenza demolitoria che vulnera il senso di dignità e di rispetto che accompagna la persona nella sua dimensione individuale e sociale».
Parole durissime e critiche forse anche ai colleghi della stessa corte che, circa tre anni fa, avevano assolto il vaffanculo ritenendolo un vocabolo «rappresentativo di concetti osceni ma ormai diventato di uso comune e sinonimo di non infastidirmi o, lasciami in pace». Ora invece la Cassazione fa retromarcia e sostiene che se si vuole cambiare atteggiamento di fronte a certi epiteti serve una legge che espressamente lo dica. «La pretesa desensibilizzazione della coscienza collettiva di fronte alle asperità della volgarità dominante, non vale a scriminare lesioni così vistose della propria onorabilità, se non a costo di operare una sorta di depenalizzazione delle norme, che non compete all’interprete». Infine, sottolineano gli ermellini, «non va taciuto che la riaffermazione del senso definitorio della parola costituisce un'esigenza etica irrinunciabile». Dunque, la Cassazione afferma tra le righe che la nostra società è disseminata da intollerabili volgarità. A cui va dato un freno. Così, dopo l’apertura sociologica del vaffa..., la Corte ci ripensa e applica con più rigore il codice penale. Che del resto è sempre stato rispettato quando una persona dice «pirla». La battuta tipica del dialetto milanese è anch’essa considerata un insulto perché «lesivo del decoro e dell’onore» della persona offesa. La parolaccia, del resto, aveva anche creato qualche guaio a Franca Rame che, nel 2002, era stata querelata dal ministro della Giustizia Roberto Castelli. Ma non tutta la critica politica è messa sullo stesso piano. A volte si condanna, altre volte si assolve.

Come avvenne nel 2006 quando, sempre la Cassazione, aveva stabilito che dare del «buffone» al presidente del Consiglio non è un insulto. Anzi, ha addirittura «un’utilità sociale» per il suo carattere di «critica politica» rivolta nei confronti di un uomo pubblico. Misteri della giurisprudenza.

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