I latinos alle urne, prova generale in attesa del «supermartedì»

Questa è la nuova America. La Florida è uno specchio, un laboratorio, un esperimento. Il voto conta perché vincere in uno Stato così vuol dire sapere di avere un domani.
La parola magica è «latinos». Sono loro la chiave. La Florida ha meno di 18 milioni di abitanti e di questi tre milioni sono ispanici. Cubani, venezuelani, messicani, dominicani, sudamericani, portoricani. Ora americani. Votano e contano. Qui come in California e in tutto il West saranno fondamentali. Ma qui si comincia prima, è l’inizio di una gara etnica che cammina sottotraccia. Il voto della Florida importa ai repubblicani perché indica che cosa accadrà tra una settimana, nel supermartedì, quando ventidue Stati andranno alle urne e tra loro ci saranno tutti quelli più latinos. Quel giorno importerà anche ai democratici che in Florida guardano soltanto per colpa di bega di partito che ha cancellato i delegati dello Stato.
Il 5 febbraio la geografia e la demografia del voto potranno fare la differenza: in California è ispanico il 22,8 per cento degli elettori, in Arizona il 17; in Colorado il 12,3; a New York l’11,4; il New Jersey il 9,9. I numeri nascondono un significato che gli staff dei candidati conoscono alla perfezione: la comunità latina è quella che si muove più in massa. Fa gruppo, fa quartiere, fa città: lingua, usanze, tradizioni, matrimoni, figli. Vive nel melting pot, ma quando torna a casa è sempre come se tornassero all’estero. Mangia latino, ascolta latino, guarda latino. I canali della televisione via cavo che trasmettono in lingua spagnola diventano sempre di più: sport, informazione, intrattenimento. Non è soltanto l’idioma, poi. L’ispanico cerca la sua vita, s’aspetta di trovare risposte alle sue domande. La politica asseconda e segue: la Florida di un milione di esuli cubani, del senatore Mel Martinez, unico latino in Senato, è il termometro di una situazione che dev’essere gestita. Un anno fa, i democratici si sono ripresi il Congresso perché i latinos hanno votato in massa per loro nelle elezioni di Mid-term, nel 2004 Bush vinse contro Kerry perché contro ogni pronostico l’elettorato ispanico non si sbilanciò a favore dello sfidante democratico. Ora tutti vogliono capire chi sceglieranno i parenti di Ugly Betty la bruttina honduregna protagonista della serie tv di maggior successo negli ultimi tempi. I sondaggi dicono che adesso gli ispanici stanno dalla parte di Hillary Clinton: secondo alcuni istituti di ricerca, la senatrice viaggia intorno al 60 per cento tra i latinos. Obama non va: perché è nero e i neri non hanno mai avuto un buon rapporto con gli ispanici, perché non ha fatto campagna tra gli ispanici neppure in California tanto è convinto che tra loro non ha grandi simpatie.
È messo bene John McCain, invece. Tra i repubblicani sembra lui il preferito dai nuovi americani che parlano spagnolo. Piace perché è dell’Arizona e conosce i problemi della comunità e poi perché sull’immigrazione è più tollerante degli avversari.

Non voleva il muro che l’America ha costruito lungo la frontiera col Messico. Anzi lui voleva la regolarizzazione di 400mila clandestini all’anno. È un amico dei latinos. La Florida è una tappa, per lui e per gli altri. È un’idea, una traccia. Per il supermartedì, prima. E per il futuro poi.

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