È uscito il nuovo libro di Walter Veltroni, Quando cade l’acrobata, entrano i clown, dedicato alla strage dello stadio Heysel, in occasione della finale di Coppa dei campioni Juventus-Liverpool del 29 maggio 1985, una strage con decine di morti in diretta televisiva causata dalle folli cariche degli hooligans inglesi. Il monologo, senza infamia e senza lode, destinato alle tavole del palco teatrale, è stato pubblicato da Einaudi qualche giorno fa, proprio mentre molti altri autori della casa editrice torinese si chiedevano se pubblicare per il gruppo Mondadori, proprietà Berlusconi, fosse uno sporco atto di collaborazionismo. Nemmeno questo dettaglio è riuscito a suscitare un minimo di interesse verso l’ultima fatica dello scrittore/politico che, quando era all’apice del potere, sembrava ormai candidato al Nobel. Una ampia intervista sulla Stampa, una più piccola su Sette, alcuni trafiletti di maniera imboscati nelle pagine interne, un’apparizione al Tg3, una a Radio Tre, una più corposa a Sky Sport...
Una copertura tutto sommato notevole per qualsiasi altro autore, ma poco o niente per Walter, abituato ad altre presentazioni, ad altre recensioni. Ricordate? È l’estate inoltrata del 2006, e il mondo letterario italiano attende trepidante l’esordio nella narrativa del sindaco di Roma appena rieletto con una valanga di voti. Walter è l’uomo nuovo (si fa per dire, essendo nelle file della FGCI da quando era in fasce), alcune sue frasi lasciano sperare nelle sue capacità d’innovazione («Il comunismo è lasciare il posto alle vecchiette sul tram», pare abbia detto), insomma è il candidato in pectore del Partito democratico.
Forse sarà per questo che la Scoperta dell’alba (Rizzoli), un romanzo che sfoggia una prosa da studente liceale con velleità poetiche, fa incetta di anticipazioni positive. La critica si scatena in un kamasutra marchettaro mai visto a memoria d’uomo. Si leggono, su quasi tutte le testate, recensioni zerbinate, sdraiate, inginocchiate, prone, insalivate. È una gara all’elogio più roboante, una competizione al paragone fuori misura. Parte Dacia Maraini in piena estate con una lenzuolata sul Corriere della Sera in cui volano paroloni. Tanto per non esagerare, alla Dacia «è venuta in mente “l’identità sospesa” di cui parla Pirandello». Una malattia del nostro tempo «così ben raccontata da Mattia Pascal, che qui appare con piglio rinnovato nella storia misteriosa e dolente di Giovanni Astengo», protagonista del romanzo del Fu Mattia Veltroni. Per uscire dall’apparente impasse narrativa, in cui sembra scivolare (ma solo per un attimo) la «storia conradiana», il leader sfodera un «elegante zoom alla Tarkovskij».
E voilà: Pirandello, Conrad e Tarkovskij in un colpo solo. Magistrale. Quasi impossibile fare meglio. Giancarlo De Cataldo (Il Messaggero) cerca di essere all’altezza e se la cava con uno «spunto da “realismo magico” e fulminante conclusione alla Borges». Olè. Nantas Salvalaggio sul Tempo prova una manovra diversiva e afferma (con ironia, va detto) che «Walter gioca con i colori degli aggettivi come Chagall o Toulouse-Lautrec». Andrea Camilleri, sull’Unità, si trastulla con Calvino per arrivare a concludere che: «la straordinaria qualità di Veltroni narratore consiste in questo continuo scorrere quieto, in questo fluire qua e là picchiettato da voluti soprassalti di mulinelli o di piccoli gorghi». Concita de Gregorio, sul Venerdì di Repubblica, si smarca: «Non è dunque nulla di quel che si mormorava alla vigilia – un giallo, un noir, un thriller psicologico, un romanzo sugli anni di piombo, un racconto metafisico o forse onirico, una confessione autobiografica – ed è invece naturalmente, come sempre quando si tratta di Veltroni, un poco di tutto questo insieme». Negli incontri pubblici, Adriano Sofri tira fuori Giacomo Leopardi, la Maraini (ancora lei) evoca Henry James, Sandro Veronesi convoca le qualità di Ian McEwan. Veltroni fa finta di niente, anzi, precisa: «Non sono uno scrittore, sono uno che scrive».
Nel febbraio 2009, Veltroni si dimette da segretario del Partito democratico, dopo la doppia batosta elettorale che ha affondato il suo schieramento (politiche e amministrative di Roma). In agosto esce Noi (Rizzoli). L’ex leader porta a casa una badilata di articoli ma, come dire, più oggettivi e meno sbilanciati, tanto che la formula che va per la maggiore è l’intervista. Che parli e se la sbrighi lui. C’è un fatto singolare però. Noi viene impallinato sul «Domenicale» del Sole 24 Ore dal critico Giovanni Pacchiano: «Noi, ha dunque, a prima vista, l’aspetto del romanzo storico. Con, in più, una singolare punta proiettata nel futuro, che potrebbe fare tanto fantascienza, se l’autore non si limitasse a una serie di luoghi comuni senza mordente sul trionfo dell’individualismo e sulla solitudine futura». Bang, legnata sulla testa. Passa qualche giorno e il direttore del quotidiano, Gianni Riotta, scende in campo per rimettere a posto le cose e il suo collaboratore: «Quando l’autore di un libro è personaggio noto, i recensori spesso finiscono con il mettere sotto critica l’autore, non il volume». Poi si tesse l’elogio della sinistra di Walter, «una sinistra del buon senso, della mano aperta, che veda in una pubblicità un sorriso e non la mano del demonio, nella famiglia un calore e non oppressione ratzingeriana, nella memoria simpatia e non manovra massonica».
Una sinistra macellata nelle urne, ma non importa.
Oggi, primavera 2010, Walter è fuori gioco, ci prova anche lui con la Fondazione-corrente ma sembra in ritardo.
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