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I libri diventano talk show e il dialogo vola in classifica

All’inizio della filosofia occidentale c’è lui: il dialogo. Forma principe della maieutica socratica, accesso alla verità senza pretese di ortodossia. Anzi, le radici di questo «dramma» sapienziale potrebbero esserci già in nuce nell’eracliteo: «Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re». Perché il dialogo, questa educata guerra di parole, a differenza del monologo, del saggio o della legge rivelata contiene una verità maieutica che nasce dall’incontro di posizioni, realmente o artificiosamente opposte. Tant’è che spesso i filosofi e gli scienziati vi ricorrevano anche come espediente, basti pensare al Dialogo sui massimi sistemi inscenato da Galileo Galilei (che sapeva sin dall’inizio dove andare a parare e voleva, semplicemente, andarci senza troppi rischi).
E il dialogo ora torna di moda, si fa largo nelle classifiche della saggistica, superando con agilità gli apocalittici di turno o i moralisti che fanno copie raccontando tutte le possibili caste e castine. Per rendersene conto basta enumerare qualche titolo tra quelli che hanno ottenuto il maggior successo di scaffale: Disputa su Dio e dintorni di Corrado Augias e Vito Mancuso; Confini. Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo di Ernesto Galli della Loggia e Camillo Ruini; La via lattea di Piergiorgio Odifreddi e Sergio Valzania, Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà di Edoardo Boncinelli e di Giulio Giorello; Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill...
E se il tema su cui più si ricorre al dibattito a due è quello della eterna querelle tra laici e credenti, anche altri campi dello scibile vengono trattati nella forma della conversazione dotta, come il Dialogo sulla morte di Michele Illiceto e Paolo Cascavilla, o le Conversazioni sulla Cina tra un filosofo e un architetto di Jean-Paul Dollé e Philippe Jonathan, oppure le discussioni prettamente filosofico-sociologiche contenute in Disinventare la modernità dove a disquisire sono François Ewald e Bruno Latour...
Ma di fronte a un tale dilagare viene da chiedersi se questi nuovi dialoghi abbiano in sé qualche caratteristica di novità o se siano solo una moda passeggera. Soprattutto stupisce che il pubblico, molto più refrattario ad altre forme di comunicazione dotta, si butti così avidamente su questo tipo di prodotti (cosa che stimola gli editori a sfornarne sempre di più). Ne parliamo con alcuni degli autori.
Ad esempio per Giulio Giorello quello che ha appena portato a termine con Boncinelli è qualcosa che non si discosta molto dalla sua abituale modalità di lavoro filosofico: «Io ho sempre amato lavorare a due, lo facevo sempre con Marco Mondadori anche se poi il libro non assumeva la forma del dialogo... Nel caso di questo lavoro con Boncinelli ci siamo seduti con un registratore acceso e abbiamo iniziato a parlare... Diciamola in modo semplice: con il dialogo si porta il lettore nella cucina delle idee, non gli si dà qualcosa di preconfezionato. E poi vivaddio, il dialogo è più democratico, consente a chi legge una terza posizione. Su certi temi credo proprio sia uno strumento molto adeguato, lascia spazio al dubbio».
E la questione dello spazio del dubbio, la scelta di lasciare spalancata la porta dell’interpretazione, potrebbe essere anche uno dei punti deboli dell’«esposizione bipolare». È un problema che si pone Ernesto Galli della Loggia, appena arrivato in libreria conversando con Camillo Ruini: «Il successo del genere dialogo è dovuto anche al fatto che viviamo in un’epoca di profonda incertezza, c’è una consapevolezza diffusa della parzialità delle idee e non sottovaluterei nemmeno la facilità editoriale del genere. Per la sua stessa forma il dialogo impone una comunicazione leggera, facile da leggere... Tutto questo ha dei risvolti positivi ma è anche un segno di fragilità. Di pensiero debole, se mi si passa l’espressione».
Su altre posizioni è invece Sergio Valzania che nelle sue erratiche chiacchierate sulla fede con Piergiorgio Odifreddi ha giocato senza rete: le loro discussioni, prima ancora di diventare libro, finivano in diretta alla radio. «Il dialogo piace perché è il parlare degli aristocratici, è una modalità di racconto più brillante di altre, ha un’azione scenica... Io credo che sia un ottimo modo per veicolare idee forti. Scontrandosi verbalmente, come abbiamo fatto Odifreddi ed io, si finisce per tirar fuori il meglio del repertorio. Se uno perde una battuta può dare l’impressione di aver perso l’incontro...». Per Valzania il limite di questo tipo di comunicazione è un altro: «Il pubblico tifa chiaramente per uno dei due “campioni” in “lotta”. Non penso legga per cambiare idea. Poi ci sono confronti e confronti... Io e Odifreddi eravamo davvero su posizioni molto diverse, Augias e Mancuso fanno una cosa diversa. In fondo, Mancuso è il teologo più vicino al modo di sentire di Augias...».
Vito Mancuso, invece, vede nel dialogo proprio un mezzo per cambiargli le idee, o meglio per arrivare ad una coscienza più alta dell’altro. «Oltre al fenomeno dei libri c’è anche l’aumento delle conferenze, dei dibattiti. L’intelligenza ama l’opposizione e poi almeno per quanto riguarda le modalità di vivere la fede c’è una modalità, a cui appartengo, che ha il bisogno di collocare dentro di sé la posizione altra. Un po’ come la coincidenza degli opposti in Cusano... Non credo che alla gente il dialogo piaccia in quanto scontro, per la vis polemica. I bassi istinti esistono, ma sa quante persone mi hanno detto: “Ho visto la verità in entrambe le posizioni, continuavo a cambiare idea”. E io scherzando rispondo che allora conviene parlare per ultimi».
Insomma, basta poco per rendersi conto che non si dialoga solo nel dialogo, ma che il dibattito è aperto anche sul dialogo come strumento in se stesso. La certezza è invece che ne leggeremo altri a breve. Non tanto perché il genere, come detto all’inizio, è antichissimo, quanto perché le mode editoriali sono incontenibili. Del resto, come spiega Galli della Loggia, «negli anni Settanta tutto era diventato libro-intervista, la divulgazione era fatta così. Adesso c’è questo modello più paritario, poi chissà...». L’importante, forse, è essere in quella condizione che il Socrate del Gorgia raccontava così: «A che genere di uomini appartengo? A quello di chi prova piacere nell’essere confutato, se dice cosa non vera, e nel confutare, se qualcuno non dice il vero, e che, senza dubbio, accetta d’esser confutato con un piacere non minore di quello che prova confutando.

Infatti, io ritengo che l’esser confutati sia un bene maggiore, nel senso che è meglio essere liberati dal male più grande piuttosto che liberarne altri». Perché, in caso contrario, dialogo, saggio, romanzo o indovinello poco cambia.

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