I libri sulla Shoah truccati da strenne per vendere di più

Per motivi anagrafici il ricordo è sempre più affidato a letteratura e storia. Ma con titoli ritoccati e resi ammiccanti e memorie tragiche definite "commoventi come un film" si banalizza tutto

I libri sulla Shoah truccati da strenne  per vendere di più

Tre anni fa il filologo Pier Vincenzo Mengaldo e lo storico Sergio Luzzatto polemizzarono su un tema scivoloso: memorie e testimonianze sulla Shoah sono (anche) un genere letterario? L’analisi critica sottrae qualcosa all’unicità di ogni esperienza o è utile al fine di produrre conoscenza e tramandare il ricordo?
Mengaldo partiva da una constatazione, affidata in sintesi al saggio breve Memorie e testimonianze dalla Shoah: «La Shoah oggi è narrata e discussa in una misura dieci volte superiore a quella di trenta-quaranta anni fa, e non soltanto in Italia». Poi l’autore forniva una interpretazione del crescente interesse e delle reticenze passate. Primo. Quei fatti tragici, di cui anche l’Italia era responsabile, rischiavano di offuscare la «nuova immagine democratica del Paese».

Secondo. Spesso, a sinistra, «si metteva l’accento sulla resistenza antifascista e antinazista piuttosto che sullo sterminio degli ebrei» (motivo per cui Einaudi, inizialmente, rifiutò Se questo è un uomo). Terzo. I superstiti si scontrarono con l’incredulità. Ha detto Shlomo Venezia, autore del recente Sonderkommando Auschwitz: «Ho iniziato a raccontare quello che avevo visto e vissuto a Birkenau molto tempo dopo, non perché non ne volessi parlare ma per il fatto che le persone non volevano ascoltare, non volevano crederci».
Mengaldo nel libro La vendetta è il racconto (Bollati Boringhieri) analizzava invece gli «aspetti della letteratura della deportazione». Non che la parola «letteratura» non fosse mai stata usata per testi di questo tipo. In realtà la usò Primo Levi stesso nell’introduzione a Uomini ad Auschwitz di Hermann Langbein, in cui distingueva fra «i diari o memoriali dei deportati, le loro elaborazioni letterarie, le opere sociologiche e storiche».

Luzzatto recensì il volume di Mengaldo sul Corriere. Titolo: «La Shoah non è un genere letterario». Lo storico, in estrema sintesi, dichiarava inutili gli strumenti del critico di fronte all’unicità delle testimonianze. E accusava il filologo di allargare troppo il raggio della ricerca, confondendo l’oggetto principale, cioè «l’esperienza storica della Shoah», con altre «situazioni» in cui «analogamente ad Auschwitz» gli uomini furono ridotti a «corpi da imprigionare, da torturare, da annientare». I Gulag, ad esempio. Seguì immediata la replica di Mengaldo, che rivendicò il valore conoscitivo, e non solo artistico, della letteratura.

Sull’ultimo Domenicale del Sole 24 Ore lo stesso Luzzatto torna ora indirettamente sull’argomento in un articolo molto interessante. I libri sulla Shoah, anche per ovvi motivi anagrafici, sono ormai opera di scrittori che non hanno vissuto in prima persona la deportazione nel lager. «Il fascino della stagione odierna - scrive Luzzatto - appare dunque, paradossalmente, quello di un Giorno della memoria fatto soprattutto di letteratura e storia». L’evento «culturalmente epocale», quello che ha (per così dire) sdoganato la letteratura della Shoah, è stata la pubblicazione, con enorme successo e con enormi polemiche, del romanzo Le benevole (uscito in Italia nel 2007 per Einaudi). L’autore, Jonathan Littell, un americano di lingua francese nato nel 1967, è figlio di ebrei americani ma non può essere in alcun modo considerato una vittima (o un parente di vittime) dell’Olocausto. Il libro, anche se ben documentato, è dunque pura invenzione. Insomma: pura letteratura. Che Luzzatto sembra apprezzare. Infatti tra i libri a tema usciti quest’anno segnala Gerico 1941 di Igor Argamante (Bollati Boringhieri), titolo «ibrido» e irriducibile a ogni tentativo di classificarlo (storia o narrativa?) anche perché «l’autore parla di ebrei senza essere ebreo e scrive in italiano senza essere italiano» (Argamante è lituano).

Il problema nasce quando gli editori iniziano - e hanno già iniziato - a vendere memorie e testimonianze nella stessa veste con la quale venderebbero il romanzetto della settimana. La mole dei libri pubblicati in queste settimane sulla Shoah è davvero notevole (una cinquantina solo per limitarci ai principali marchi). Il che è importante e positivo. Però non è raro leggere bandelle che all’occhio allenato ricordano fin troppo quelle dei bestseller più terra terra o delle strenne di Natale. E giù «storie commoventi» come «il film La vita è bella di Benigni», ma «vere». E ogni diario è «il nuovo diario di Anna Frank», e c’è perfino una Pianista bambina che nel titolo in lingua originale manca del tutto.

Forse sarà un caso, oppure no, visto il successo del film capolavoro di Roman Polanski, Il pianista, appunto. Gli editori non sono enti caritatevoli e quindi fanno tutto il necessario per piazzare la merce. Non è il caso di fare i moralisti. Però alla lunga si rischia di banalizzare il Giorno della memoria.

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