di Alberto Mingardi
Caro direttore, a differenza di Vittorio Macioce, non credo che i «maestri liberali» si siano nascosti. Mi preoccupano piuttosto gli allievi. Mi spiego.
Nel suo j’accuse, Macioce mescola tre piani di analisi che sono sostanzialmente diversi. In primo luogo, considera criticamente l’incapacità di organizzazione dei liberisti italiani, che immagina - in ossequio allo stereotipo - pochi e malmessi. In seconda battuta, s’interroga sull’orizzonte di patente irrilevanza in cui sembrano essere precipitate idee che solo ieri, per quanto incapsulate in una nicchia, erano depositarie di un grande avvenire.
Alla fine, fa due più due e legge la debolezza nel liberismo, in una scarsa comprensione del suo retroterra morale, più che di «efficienza». La libertà non può valere solo quando «funziona». Altrimenti basta un sabotaggio, per convincerci a cambiare strada.
Punto primo. L’organizzazione. Quella dei liberisti non è solo l’incapacità di parlare con una voce sola - presumibilmente dovuta al loro individualismo congenito. Per anni, e ancora oggi, è il rosolarsi compiaciuti in uno stato di minorità. È una caratteristica tipica di tutti i movimenti che hanno poche risorse e poca visibilità. Mi ignorano dunque sono.
Il vittimismo di Vittorio Macioce non sfugge alla regola.
Sorpresa: il cielo è un poco più blu. Basta andare in libreria. Hayek non lo confondono più con un autore di gialli, persino Bastiat o Rothbard sono nomi relativamente noti. Se c’è offerta, almeno un po’ di domanda ci deve essere. E questa è una differenza abissale con l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, quella che vedeva Bruno Leoni rinunciare a tradurre il suo capolavoro, e Sergio Ricossa «impegnato a dimettersi» da istituzioni e giornali per cui era troppo di destra.
Non siamo tuttavia nemmeno in un’Italia che abbia fatto davvero un bagno di liberismo.
E vengo al secondo punto.
Se c’è una cosa che era evidente ieri e che è doppiamente evidente oggi, è che da noi è mancato un leader che, come la signora Thatcher, sventolasse The Constitution of Liberty di Friedrich von Hayek per dire: questo è quello in cui crediamo. È un dato di fatto, non una colpa. Rileggete la storia della seconda repubblica. Chi le ha fatte, le privatizzazioni? Paradossalmente la sinistra, non Berlusconi. Il partito liberale di massa ha variamente reagito al passaggio in mani private dei resti dell’Iri, ai tentativi di liberalizzazione del commercio, all’attacco agli ordini professionali e alle medicine al supermercato. Di una sola campagna liberista aveva il monopolio. Per inciso, la più importante: quella per l’abbassamento della pressione fiscale. Ma se le tasse in Italia scendessero davvero, su quale promessa la destra potrebbe rivincere le elezioni?
In queste condizioni, possiamo stupirci che qualcuno legga la recessione incipiente quasi con masochistico compiacimento? È Schadenfreude («piacere provato dalla sfortuna dell’altro», ndr).
Avendo masticato amaro per gli anni del Washington Consensus e della globalizzazione rampante, a buona parte della nostra intellighenzia non è parso vero che il capitalismo fosse finalmente lì, dove doveva stare dai loro vent’anni: sul precipizio di una terribile crisi. Hanno sbagliato, i nostri «maestri liberali»?
No, hanno fatto il loro dovere, predicando coi mezzi che avevano e le parole che sapevano usare. Sono gli allievi, che dovrebbero portare la fiaccola alla stazione successiva. Calare le idee nel reale, trasformarle in proposte, sminuzzarle in messaggi comprensibili alla sciura Maria. Il liberismo è finalmente arrivato in libreria, ma ora deve uscirne.
Eccoci al terzo punto. Abbiamo pensato che questo lavoro lo dovessero fare gli economisti. Gli economisti italiani sono bravissimi. La loro diaspora ha arricchito le università di tutto il mondo. E hanno per le mani l’arte oracolare dei tempi nostri. Però stavolta non hanno tenuto botta. Questa crisi è la loro. È passato il cigno nero, e politiche profondamente sbagliate ci hanno presentato il conto tutte assieme.
Certi raffinatissimi modelli matematici hanno vacillato. Ma se gli economisti sentissero quel «tabù dello Stato», quell’istintiva diffidenza rispetto alla discesa in campo del pubblico che è poi ciò che distingue chi ha cuore la libertà da chi può farne legittimamente a meno, non si sarebbero gettati a pesce su ricette del passato, in passato spettacolarmente fallimentari, nell’isteria di salvare il Titanic a colpi di spugna. L’umiltà epistemica, che del liberalismo è uno dei tratti salienti. Il senso del limite, innanzi all’inaspettato. L’incapacità di sterminati eserciti di regolatori di predire il futuro. Questo ci insegna la crisi.
E tale insegnamento ci sarebbe evidente, se avessimo occhi buoni. Abbiamo lo sguardo appannato perché a furia di sentire frottole sul mercato, quelle abbiamo imparato. Così, se un operatore fallisce, o quando i prezzi scendono, è il sistema che è marcio: mentre invece esso si sta, dolorosamente, aggiustando. Stavolta i chierici che hanno tradito sono gli allievi di Adam Smith. Per spirito di corpo. È dai loro ranghi che vengono i regolatori del mondo.
Su un punto, Vittorio Macioce ha ragione. Il mercato non è giusto perché serve, ma serve perché è giusto. Perché l’insieme di libertà e tabù che costituisce l’architettura fragile del sistema della libera impresa, è l’unica cornice in cui possano fiorire la creatività, la voglia di fare, il bisogno di realizzarsi delle persone.
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