Ha appena partecipato a Sanremo, pubblicato un album (La ruota) e un libro (Alieni. Un mistero fra noi), cominciato una nuova tournée. Fra una tappa e l’altra, Enrico Ruggeri infila due giorni a Milano e una vittoria della sua Inter in Champions.
Ma come si passa dal palco agli ufo?
«Dopo due trasmissioni è arrivato Mistero, sempre su Italia 1. Mi piace raccontare storie: lo faccio nella musica, nei libri e ora anche in televisione».
Alieni e simili sono sempre stati una passione?
«Mi sono appassionato durante una puntata de Il bivio. Comunque non parliamo solo di ufo».
E ci crede?
«L’arbitro di Milan-Juve non tifa. E io non mi pronuncio. Certo ci sono fenomeni difficili da spiegare razionalmente».
Il vero mistero qual è?
«Che cosa ne sarà di noi dopo la morte».
Si interroga spesso?
«Credo che da qualche parte andremo».
È religioso allora?
«Sono convinto che ci sia una vita successiva. E che si sia già molto religiosi se si riesce ad attenersi al principio del “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Davvero rivoluzionario».
Ma...
«Sono scettico su molte regole. Non credo che avere rapporti prematrimoniali ti porti all’inferno».
Al Festival ha cantato «La notte delle fate». Chi sono?
«Sono le donne di oggi, coi loro rimorsi, i rimpianti, i sogni, le battaglie da combattere».
Perché, come sono?
«Dovremmo chiederci come sono gli uomini. Questa nuova donna li fa sentire precari».
Sono destabilizzati?
«Mio figlio di vent’anni ha tantissimi amici gay, molti vanno a trans: oggi gli uomini fanno di tutto pur di non affrontare le donne. E questo complica la vita anche a loro: siamo rimasti in pochi».
Passa per conoscitore del mondo femminile. Perché?
«È solo che ascolto le donne».
La fama la lusinga?
«Beh sì, mi piace».
E la sua compagna, la musicista Andrea Mirò è d’accordo?
«A volte si lamenta, noi maschi siamo maldestri. È sempre più facile la teoria della pratica».
Com’è nata questa sensibilità? Per conquistare qualche compagna a scuola?
«Certo. Da ragazzo non ero ricco e non parlavo in assemblea, due cose che di solito coincidevano; non ero sportivo e non avevo il motorino. Suonavo e basta, in cantina. Quindi dovevo parlare, giocarmela sul campo».
Lavora con la sua compagna. Un’impresa?
«È molto difficile. Devi separare totalmente le due posizioni».
Paragoni?
«Lei è un fenomeno, ha una musicalità enorme. Non ho mai incontrato nessuno come lei».
Gioca ancora a scacchi?
«Non tanto. Però è un grande insegnamento di vita: più sei lungimirante, più sei bravo».
Riesce ad applicarlo anche nella realtà?
«Sì. Raramente mi trovo spiazzato».
E le piace?
«Mi rassicura».
Che altro insegnano gli scacchi?
«Se perde il re hai perso la partita; ma, come tutti gli uomini, è un inetto, è quello da salvare. È la regina che fa le cose: così le donne, nella vita, ti lasciano credere che comandi, ma fanno tutto loro».
Ha un figlio di vent’anni, uno di quattro e uno in arrivo. Che padre è?
«Buono direi. Oggi è più facile fare i genitori».
Dice sul serio?
«Ma sì. Io e mio figlio di vent’anni ascoltiamo la stessa musica; se mi parla di droga, so che cosa sia. Mio figlio nascerà ad agosto e io avrò 53 anni: sarò ancora attivo, non alle soglie della pensione».
Anche lei è un po’ alieno. Come ha detto, non è mai stato «intruppato» a sinistra...
«Mai. Il piacere è avere successo da cantautore senza schierarsi politicamente. Dieci volte più difficile».
Com’è andata?
«Vengo da un liceo, il Berchet di Milano, che coltivava l’intellettuale di sinistra del futuro: avvocati, professori, giornalisti...»
Non voleva finire nel mucchio?
«Una mattina del ’72 eravamo in assemblea come al solito, arrivarono e ci dissero: “Compagni, il proletariato ha giustiziato il commissario Calabresi”. E l’assemblea applaudì».
E i professori?
«Anche molti di loro. Del resto i prof si facevano dare del tu, si chiamavano “compagno” l’uno con l’altro. Era una sottile ma marcata dittatura. E l’artista è sempre contro il potere. Poi ho fatto anch’io le mie battaglie, ma sempre da uomo libero».
E questo ha dato fastidio?
«Certo. Molti si stupivano che un cantautore non si dichiarasse di sinistra».
Fu criticato pure per aver partecipato a Sanremo...
«Sì. Nell’80 mi scrissero sul muro di casa “Servo del potere”. Secondo qualcuno noi, da punk, ci eravamo “venduti”. Ma un paio di anni dopo al Festival ci andò anche Vasco».
È stato mai corteggiato dalla politica?
«Sì, ma non fa per me. Sono un creativo, non un pragmatico».
Ma ha sempre fatto solo il cantante?
«Dopo il liceo ho fatto il prof per un anno: italiano e latino, alle medie dove avevo studiato. Divertente. È come fare il cantante: devi affascinare i ragazzi».
Ed era già capellone?
«No, avevo i capelli corti e gli occhiali scuri alla Lou Reed. Dopo quindici giorni metà dei ragazzi era vestito come me».
Ha detto: mi hanno preso in tv perché cercavano uno che non sbagliasse i congiuntivi. È ancora un po’ prof?
«Ma no... È che mi piace la lingua italiana. Certo non sbagliare i congiuntivi ha ristretto molto la selezione».
Quanto conta Milano nella sua vita?
«Il mio grado di felicità dipende dalla vicinanza alla Madonnina. Non ho mai pensato per un minuto di cambiare».
Perché è così legato?
«Mi sento protetto, mi dà un senso di comunità».
Non è come tutti i milanesi, che si lamentano di qualcosa?
«Il milanese è tollerante per natura. Se si esagera però possono nascere i problemi. Per esempio: la tata di mio figlio piccolo, che è ucraina, se viene tardi la sera mi chiede di fermarsi a dormire. Mi dice: “Ho paura, in giro è pieno di stranieri”».
Serve più sicurezza?
«Sì, ci vuole più fermezza. Gli stranieri integrati sono i primi a chiedere più legalità».
Cantante, conduttore tv, scrittore. Tutte le anime come si conciliano?
«Le vedo molto vicine: amo comunicare delle cose. E poi La ruota è l’album numero 29: cioè per ventinove volte ho scritto, provato, registrato, promosso, fatto tournée. Allora devi spezzare: la televisione e i libri sono la vacanza fra un lavoro e l’altro».
Vacanza per modo di dire...
«No no. In vacanza non vado mai».
Mai? Impossibile.
«Mai. Perché dovrei? Sono andato una volta sola nel 2001 con la mia compagna e mio figlio, per cementare il rapporto. Una settimana ai Caraibi».
È così stakanovista?
«Sì. E poi niente mi divertirebbe di più che suonare».
Resta a Milano pure in agosto? Anche la sua compagna?
«Lei va in Liguria col bambino, io magari li vado a trovare per qualche ora e torno. E poi in agosto si suona».
Ma suona sempre?
«Sempre. Ho suonato dopo il mio matrimonio, dopo i funerali dei miei genitori, dopo la nascita dei miei figli».
E quando dovrà scendere dal palco?
«È un pensiero che rimuovo. Il mio unico incubo».
Che rapporto ha coi soldi? È schizzinoso?
«Sereno. Purtroppo i soldi sono la pagella che ti dà la vita. Anche se a volte è un meccanismo sbagliato».
Un po’ come il televoto a Sanremo...
«Già. D’altronde qualcuno deve pur portare a casa il premio. E per quelli come me il lunedì dopo non cambia nulla. Poi per come è finita, mi sento onorato di non aver vinto».
A proposito, è vero che ha giocato a scacchi con Karpov? Com’è finita?
«Beh, ho perso. Dignitosamente, alla ventiduesima mossa. Ma mi aveva infilato in una palude».
E
quindi?«Ho abbandonato. Gli ho detto: “Magari ci rivediamo, chissà se si ricorderà di me”. E lui: “Se mi ricordo? Se la incontro di nuovo, le rigioco la stessa partita”».
Spiazzato?
«Quella volta sì».
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