I migranti sognano l'Italia. Ma gli scafisti sono un incubo

Garrone firma "Io Capitano", storia senza retorica di due ragazzi africani che vogliono vivere meglio

I migranti sognano l'Italia. Ma gli scafisti sono un incubo

Dopo Comandante, un altro eroe del mare, un altro viaggio per salvare gli altri dalla morte e noi stessi dalla colpa.

S'intitola Io Capitano, è passato ieri in concorso a Venezia, penultimo dei sei film italiani in gara (voto medio del nostro cinema al Lido: medio-alto) è prodotto da Archimede e Rai Cinema e lo ha firmato Matteo Garrone, regista e sceneggiatore con Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri. E ci sarebbe anche Fofana Amara, il vero capitano che a 15 anni si ritrovò a guidare una barca di 250 migranti come lui senza averne mai condotta una e davvero urlò «Io, Capitano!»: ora vive in Belgio, sposato con una donna conosciuta nel centro di accoglienza a Catania, hanno figli e aspetta il permesso di soggiorno.

Film epico e poetico, fiabesco, drammatico e picaresco, che rispetta le regole del racconto d'avventura, Io Capitano è il viaggio-catabasi - avventuroso, doloroso e gaudioso - di due giovani cugini, sedicenni, Seydou e Moussa (portati in scena da Seydou Sarr e Moustapha Fall), appassionati di musica, cellulare e maglie di calcio delle squadre europee, che decidono di lasciare il loro Paese, il Senegal, e le loro famiglie, non ricche ma dignitose, per raggiungere l'Europa. Vogliono diventare rapper o calciatori. Vogliono vivere e non sopravvivere. Da Dakar all'Italia: e in mezzo desideri, orrori, sofferenze e speranza tra atmosfere magiche (voli, sogni, visioni) e crudo realismo (sporcizia, sangue, dolore).

È l'odissea di due ragazzi africani, che però non sono emigranti economici. Non partono perché muoiono, partono perché vogliono vivere meglio. Seydou e Moussa - lo ha detto lo stesso Garrone presentando il film - «sono un simbolo della loro generazione globalizzata, parte di una migrazione che non è solo quella della fuga dalle guerre civili e dalle catastrofi climatiche». Qualcuno potrebbe persino essere sfiorato dal dubbio di una migrazioni «non necessaria». «Il 70% degli africani sono giovani e hanno il legittimo desiderio di migliorare la loro vita. È un fatto di giustizia».

Il film si apre in un villaggio del Senegal, Seydou e Moussa lavorano di nascosto per mettere da parte i soldi per quello che chiamano «il viaggio» e il sogno è quello, un giorno, di essere ricchi e famosi in qualche città dell'Europa e «firmare gli autografi ai bianchi». Anche se qualcuno che conosce come vanno a finire le fiabe li mette in guardia dai mangiafuoco: «Restate qui. L'Europa non è quella che vedete in tv. Lì c'è gente che dorme per strada...». Ma il richiamo è forte, e il sogno un incubo. Frontiere da attraversare, guardie da corrompere, fughe, spostamenti in carri bestiame, il Niger, la traversata del deserto del Sahara, la mafia libica, i lager, le torture, finalmente Tripoli, gli scafisti e il destino che mette il timone di una carretta del mare nelle mani di un ragazzo che non sa neppure nuotare. Rotta: la Sicilia. E le uniche parole in italiano conosciute sono «Cazzo» e «Mamma mia!».

Fiaba amara, nera, dolente, Io Capitano narra la realtà dei migranti senza paura, senza retorica, da un punto di vista opposto a quello più sfruttato - una storia in controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dall'angolazione occidentale dei servizi tv - e senza intenti polemici o battaglie politiche. Il film documenta la brutalità di un continente dove le guerre e la povertà vanno di pari passo alla corruzione, la violenza, i razzismi interni (i vari gruppi etnici rivali, la solidarietà per comunità di appartenenza), senza stucchevoli appelli a Bruxelles né j'accuse contro questo o quel governo, sovranista o meno che sia. Qui l'Italia appare da lontano, s'intravede solo un elicottero, la nostra guardia costiera fa il suo dovere (è Malta che non risponde alle chiamate) e i soccorsi sono garantiti. Chi sfrutta uomini e donne, li vende come schiavi, li tortura, li uccide, li mette su un'imbarcazione senza alcuna sicurezza di riuscire ad attraversare il mare, è dall'altra parte, di fronte a noi.

Un po' Tolo Tolo ma d'autore, un po' Pinocchio ai tempi del Gps - «Questo è il viaggio di un ragazzo che insegue il Paese dei Balocchi tradendo la madre, partendo di nascosto e scontrandosi con la violenza del mondo che incontra», ha detto Garrone - Io Capitano è un film necessario prima ancora che bello. E che sfida il tema della migrazione in Africa senza cadere in lezioncine morali o nella propaganda politica ma riflettendo sul diritto delle persone di viaggiare e di raggiungere l'Europa, ma non nei modi che sappiamo. Solo così si può debellare il traffico di esseri umani.

Alla proiezione ufficiale ha avuto 12 minuti di applausi. E se Io Capitano fosse portato nelle scuole?

Nota a margine, in tema di sovranismi cinematografici.

Matteo Garrone ha scelto di non chiamare attori italiani famosi e far uscire il film, interamente parlato in wolof o francese o inglese, nella lingua originale. «Perché sinceramente non riusciamo a immaginare questi due ragazzi doppiati in italiano. Non avrebbe avuto alcun senso», ha detto l'ad Rai Cinema Paolo Del Brocco. Buona scelta.

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