Fausto Biloslavo
Vuciak
U no dei giovani nepalesi indossa una maglietta bianca con una grande scritta: World tour, giro del mondo. Il gruppetto avanza nella boscaglia nel Nord Ovest della Bosnia a un passo dal confine europeo della Croazia. «Vogliamo andare tutti in Italia» ammette candidamente una specie di capetto paffutello e con il sorriso pronto, che avrà poco più di 18 anni. Poco importa se non fuggono da una guerra e sono arrivati in Turchia comodamente in aereo per poi infilarsi clandestinamente nella rotta balcanica. Quello che conta è partecipare al gioco, the game, come viene chiamato in gergo da tutti i migranti il passaggio del confine croato, poi quello sloveno e alla fine l'arrivo a Trieste, per proseguire verso altri Paesi europei. Oppure chiedere asilo politico, anche se non ne hai diritto.
Arrivare in Italia? É un gioco
L'80% dei migranti inizia il gioco infilandosi nella «giungla» come i migranti chiamano i boschi attorno a Velika Kladusa, la cittadina bosniaca a un passo dalla Croazia e inerpicandosi sulle montagne per passare la frontiera. La tariffa è in media di 2mila euro fino al capoluogo giuliano con passaggi in macchina e furgoni, grazie a passeur e tassisti compiacenti. Talvolta il prezzo sale fino a 3mila-3.500 euro. I pachistani, che se la fanno tutta a piedi dormendo di giorno e marciando di notte pagano solo 500 euro per superare alcuni punti critici evitando la polizia. «Negli ultimi due anni stimiamo che siano già passati in 20mila. In questo momento solo nel nostro cantone ci saranno 5mila migranti» spiega l'ispettore Ale Siljdedic, portavoce della polizia di Bihac, l'angolo a Nord Ovest della Bosnia, più vicino al confine croato con l'Unione europea. Nel Paese sono fra gli 8mila e 10mila. Un imbuto dove arriva una media di 100 migranti al giorno, che fa impallidire Lampedusa. Farhad, capelli corti e sguardo triste, è partito dal Bangladesh assieme a una dozzina di compatrioti. «No documenti, no soldi, ma andremo avanti fino in Italia» dichiara deciso davanti ad una grande mappa della Croce rossa, che indica i campi minati della guerra nell'ex Jugoslavia.
La tendopoli nella tana del lupo
I bengalesi non hanno trovato posto nella precaria tendopoli per 500 migranti a Vuciak, che significa «tana del lupo». Un campo provvisorio nel mezzo del nulla, distante dalla città di Bihac, che non ne poteva più dell'«occupazione» di afghani, pachistani e maghrebini. «All'inizio, quando erano pochi, la gente si faceva in quattro per aiutarli. Poi i numeri sono esplosi. Bivaccavano nei giardini, si lavavano nel fiume e facevano i loro bisogni ovunque, ma il problema maggiore è stato l'aumento della criminalità e le frizioni con la popolazione» spiega l'ispettore, che ha una lunga esperienza con le missioni delle Nazioni unite all'estero. Negli ultimi sei mesi fra furti, aggressioni, reati minori e scontri etnici fra i migranti la polizia ha registrato 785 casi. «Non possiamo neppure portarli tutti davanti ai giudici perché intaserebbero il tribunale» sottolinea Siljdedic. A Bihac un centro di accoglienza gestito dall'Oim, la costola dell'Onu per le immigrazioni, ospita 1570 persone provenienti soprattutto dal Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, ma pure Irak, Libia e India. «Non c'era posto da nessuna parte. Dei migranti mi hanno assalito. Volevano taglieggiarmi per farmi dormire all'aperto» racconta un iraniano, che arriva dall'Albania giurando di essere oppositore politico degli ayatollah. Bendato e incerottato ha il volto tumefatto, il braccio ferito e parla con difficoltà. Pachistani e afghani, che a casa loro non si amano, fanno fronte comune contro i maghrebini.
Il 5 giugno sono scoppiati furiosi scontri etnici fra i migranti a Velika Kladusa, che hanno fatto traboccare il vaso e la rabbia della popolazione del cantone. Il campo di Vucjak, fuori città, dovrebbe tamponare l'emergenza che si è creata pure a Bihac. Sotto un tendone della Mezzaluna rossa turca ancora in allestimento un pachistano con il volto insanguinato attende il suo turno per venire medicato. Un altro migrante ferito a un piede nell'ultima rissa si lamenta per il dolore.
Poco più in là Ahmad Zia sta divorando la razione mattutina di viveri appena distribuita. «Vengo dell'Afghanistan e sono in viaggio da 4 anni per raggiungere l'Europa - racconta il ragazzino tajiko fuggito dai talebani - Ieri è andata male. La polizia slovena mi ha preso e rimandato in Bosnia. Ci riproverò fino a quando non arrivo in Italia».
Quanti tentativi per arrivare a Trieste
Altri migranti sono al decimo tentativo e qualcuno al ventesimo. Un pachistano racconta: «Solo 10 chilometri mi separavano da Trieste, ma sono stato intercettato dagli sloveni. Riparto di nuovo fra un paio di giorni». Tutti sono terrorizzati dalla polizia croata, che ha sigillato il confine con corpi speciali, visori notturni, droni, camere termiche e pure elicotteri. «Solo il 10% riesce a passare al primo colpo. Gli altri vengono bastonati e rimandati in Bosnia dai croati, che li portano via le scarpe come deterrente» spiega chi fa la guardia ai campi dei migranti. Oltre alle botte gli agenti croati sequestrano i cellulari con il tragitto segnato su Googlemaps inviato da chi ha già raggiunto la meta a Trieste.
«Ci hanno fermati stanotte rompendoci i telefonini e giù botte prima di rimandarci indietro urlando: Non dovete entrare in Croazia. Non è servito spiegare che volevamo andare in Italia» racconta Mohammed Amin. Uno dei due libici di Bengasi, che incontriamo malconci e zoppicanti sulla strada dal confine a Velika Kladusa. «È come il gioco del gatto con il topo - racconta una fonte in prima linea sul versante bosniaco - I croati hanno le camere termiche per individuare le colonne dei clandestini. Poi li aspettano al varco con i corpi speciali della polizia e ce li rimandano».
Il flusso arriva via Turchia in Grecia e poi Macedonia e Serbia, dove i migranti vengono volentieri lasciati passare attraverso la frontiera con la Bosnia. A Tuzla prendono d'assalto la stazione degli autobus verso Sarajevo e dalla capitale si dirigono a nord ovest nell'imbuto di Bihac anche con il treno. Se non passano il confine a piedi utilizzano piccoli gommoni per attraversare i fiumi Sava e Glina o le barche dei pescatori come è capitato a Kosarska Dubica per arrivare in Croazia.
«Siamo nel caos. Il Paese è diviso e da ottobre si attende la nascita del nuovo governo. Da Sarajevo volevano mandare i genieri dell'esercito a bloccare i passaggi dalla Serbia. Milorad Dodik presidente della Repubblica serba di Bosnia si è opposto» sottolinea Paola Lucchesi, italiana che vive a Bihac.
La rete di trafficanti
«Non c'è dubbio che per i migranti esiste una rete di trafficanti dal loro Paese di origine fino all'Italia attraverso la rotta balcanica. Hanno istruzioni sui punti di transito, come muoversi, dove andare e cosa dire» conferma l'ispettore Siljdedic. Tutti ripetono lo stesso copione, che non hanno documenti e sono nati il primo gennaio. Cambia solo l'anno. I più giovani anche se hanno superato i 20 dichiarano sempre di avere 17 anni sapendo che i minori sono tutelati e non possono venire rimandati indietro. «Onestamente non sappiamo chi sono veramente. Il 5-10% potrebbe essere criminali in fuga dal loro Paese e non possiamo escludere nemmeno l'arrivo di estremisti compresi ex militanti dell'Isis» osserva Siljdedic. Fra i migranti non si notano barboni islamici d'ordinanza, tutti vestono all'occidentale, ma c'è chi ammette che ha cambiato look per raggiungere l'Europa. Lunedì scorso un migrante iracheno di 26 anni ha ferito con un taglierino un taxista in Slovenia a un passo da Gorizia. Quando è intervenuta la polizia ha urlato a un agente: «Allah akbar, se non mi uccidi tu lo farò io». Il poliziotto sloveno ha dovuto sparargli a una gamba per fermarlo.
Pochi profughi di guerra
«Vedo tanti migranti, ma pochi rifugiati in fuga dalle guerre» ammette chi garantisce la sicurezza a uno dei cinque centri di accoglienza messi in piedi nella Bosnia occidentale. «Vogliono andare in Italia, ma molti proseguono verso Francia, Germania o Paesi scandinavi» osserva Marine, una volontaria di Ipsia, l'Ong dell'Associazione cristiana dei lavoratori, arrivata da Venezia. Hamedullah Selaab, 35 anni, è un afghano che usa il nome di battaglia «commando». Ex ufficiale dell'esercito di Kabul ha ancora sul telefonino la foto in mimetica e kalashnikov di quando combatteva i talebani. «Sono partito dall'Afghanistan nove anni fa e ho cercato di raggiungere Trieste una dozzina di volte. L'ultima lo scorso anno quando ho visto le luci della città, ma la polizia slovena mi ha preso e rimandato indietro» racconta l'afghano con capelli lunghi e barbetta curata.
Non mancano i «veterani» della rotta balcanica, che si trasformano in passeur indicando ai nuovi migranti tragitti e passaggi. «Un ragazzino di 25 anni si è improvvisato trafficante e si vantava con tanto di foto di Trieste su Facebook - racconta Paola, l'italiana di Bihac - Era diventato un punto di riferimento, ma lo hanno arrestato a Zagabria».
Il pachistano Ather Gamil, 30 anni, esperto informatico, ha scelto la rotta balcanica per amore. «Ernylin è la mia fidanzata filippina, che lavora a Genova. Ci siamo conosciuti e innamorati ad Abu Dhabi - racconta il giovane nel centro di accoglienza di Velika Kladusa - Non avevo problemi di soldi e lavoro, ma la mia famiglia voleva combinarmi il matrimonio con un'altra donna». Il novello Romeo fa vedere sul telefonino la foto della sua Giulietta spiegando che ha già provato diverse volte a raggiungere l'Italia «ma il gioco di passare i confini evitando la polizia, per ora, mi è andato sempre male».
Marine, la volontaria delle Acli con giubbotto mille tasche e lunga
treccia, che distribuisce il tè ai migranti nel campo di Vuciack ha pochi dubbi: «La rotta balcanica non fa tanto effetto come gli sbarchi a Lampedusa, ma il traffico di esseri umani è immenso e prima o dopo tutti passano».
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