I miraggi di Casini, l’uomo del 5% che sogna la Grande Coalizione

Avendo il problema di andare in vacanza e timoroso di essere dimenticato nel corso della medesima, Pierferdinando Casini ha rilasciato una clamorosa intervista alla Stampa. L'ha sparata da par suo, poi si è corretto, ha aggiunto cose, si è smarrito tra se e ma, alla fine non è rimasto nulla. È il solito Casini. Ne parlo solo perché me l'ha ordinato il direttore. In realtà, non ci sarebbe niente da dire.
Dunque, pare che Pierferdy sia disposto a fare una Grande coalizione. Per tale si intende a Palazzo un governo tra partiti opposti per salvare il salvabile. L'esempio classico è quello della Germania del cancelliere Angela Merkel. Casini, che è affezionato a questo scenario drammatico, aveva già lanciato l'idea l'anno scorso alla vigilia delle elezioni politiche quando la sua Udc prese il 5,6 per cento, come il Psdi di Tanassi sull'orlo del baratro. La differenza è che la Grande coalizione immaginata allora era tra sinistra e destra, con lui nel mezzo. Nessuno gli diede retta e gli fu spiegato che se i due giganti, Pd-Pdl, si accordavano tra loro, il 5,6 dell'Udc sarebbe risultato totalmente superfluo.
Pierferdy, che si ritiene indispensabile, si offese. Poi si arrese all'evidenza e ci ha rimuginato un anno. Così è nata la nuova proposta affidata alla Stampa di due giorni fa. Adesso la Grande coalizione che sarebbe disposto a fare è tra la sua Udc e la sinistra. Per giustificare il cambiamento evoca una situazione apocalittica di pura fantasia: Berlusconi ha portato la Nazione al collasso, ha messo i connazionali in ceppi e sommersi nel ridicolo, l'emergenza democratica attanaglia il Paese, il Mondo si interroga sull'imminente finis Italiae. Casini ha l'accortezza di precisare che non ci siamo ancora. Tuttavia, potrebbe accadere. In tal caso, ma solo se così costretto, sarebbe disposto a sacrificarsi e tendere una mano a Bersani, Franceschini, Marino o chiunque prenda la testa del Pd. E solo, avverte, per breve tempo. Quel tanto necessario per liberarci dal virus del Cav e ripristinare l'ordinato vivere civile. Non è disposto ad andare oltre, il nostro Casini. I suoi piani per il futuro sono altri e coerenti col pensiero che ha espresso negli anni. Quali? Spezzare l'usbergo del bipolarismo, ridare grandezza al centro politico, fare dell'Udc l'ago della bilancia in attesa che diventi forza maggioritaria. Inoltre, è pronto a offrire al Paese se stesso, la tenacia, gli ideali, la chiarezza delle proprie idee, sia nei panni di premier che, vedi mai, in quelli di capo dello Stato. Scelgano gli italiani, lui resta a disposizione. Ma, per favore, facciano presto perché a dicembre compie 54 anni.
Si tratta, come si vede, della classica botta da canicola ben descritta dal colonnello Giuliacci. Non diversamente dalle scosse di Max D'Alema, pure Pierferdy si esercita in vaticini. La destra vince, gli italiani la scelgono con costanza, ma c'è chi non ci sta e reagisce con stizza. A D'Alema, Franceschini, Di Pietro, si unisce adesso anche Casini.
Di suo, Pierferdy ci ha messo una iattanza da mosca cocchiera. Già chiamare Grande coalizione l'alleanza tra una sinistra al 26 per cento e l'Udc che rappresenta un ventesimo dell'elettorato, è una comica. In più, presentarsi come salvatore della Patria calpestata dal Cav dopo essere stato beneficato da lui per lustri, sa di truffa lontano un miglio. Vorrei vedere se davvero si mettesse in affari con il Pd cosa resterebbe a Casini dei voti che oggi faticosamente raccoglie. Tanto più che dovrebbe beccarsi a scatola chiusa anche Di Pietro, gli articoli in inglese, le dubbie proprietà immobiliari, i solecismi molisani.
Il giorno successivo La Stampa è tornata sul suo scoop chiarendo che Pierferdy ha detto Grande coalizione ma intendeva Comitato di liberazione nazionale, quello che spazzò via i residui del fascismo. Non sappiamo se il cambio di dizione sia autorizzato dallo stesso Casini, suggerito dalla sua cerchia o nasca da fantasie del quotidiano agnellesco. In un caso o nell'altro, è mettere il Cln in burletta, prendere in giro i lettori, farci dubitare della capacità di Pierferdy di dirigere un partito, fare il padre di famiglia e rilasciare contemporaneamente un'intervista. Che sia il caso, l'anno prossimo, di anticipare le ferie a giugno?
Di tanta chiacchiera quel che resta è che nei mesi a venire, in attesa delle elezioni regionali, Casini si terrà le mani libere. Si venderà al migliore offerente e appoggerà il candidato di sinistra o di destra in base ai piani d'incasso: poltrone, sgabelli, strapuntini. Con l'intervista estiva spera di avere preparato i suoi a capriole e salti della quaglia, augurandosi di non disgustare gli elettori. Già nelle europee di giugno si è alleato con la destra in Campania, con la sinistra in Piemonte e così zigzagando lungo lo Stivale. È, in piccolo, quello che faceva Craxi. Bettino con qualche buon progetto, Pierferdy per sopravvivere.
Ciò che resta del guazzabuglio casiniano, è quello che abbiamo sempre saputo di lui: è in politica da un quarto di secolo, ma non ha un'idea. È sempre e solo alla ricerca di durare anno dopo anno, conservando la poltrona di parlamentare che occupa dal 1983. Era allora di 28 anni, era il più giovane deputato di Montecitorio, aveva già la voce stentorea che gli conosciamo e la usava, come adesso, per dire niente. Penserete che la mia è cattiveria, polemica spicciola. Vi sfido: ricordate una cosa, una che sia servita all'Italia, uscita dalla sua bocca? E vi ricordo che in 26 anni di Parlamento, più due mandati europei, lo abbiamo pagato, minimo minimo, sei milioni di euro (media 20mila e rotti al mese, mi tengo basso). Mi limito a questa cifra perché lo ritengo onesto e non credo che si sia arricchito, come altri noti, con rimborsi elettorali e compagnia cantante. Ricordo inoltre, sempre a proposito della sua relativa utilità per la res publica, che è stato pure presidente della Camera (grazie al Cav). Dunque, è uno dei grandi nomi del Palazzo. Eppure, è servito a poco. Direte ancora: ma questo vale per tanti. D'accordo, ma quelli non avevano scelta. Con le facce che si ritrovano, la politica era per forza il loro ultimo rifugio.
Ma - a parte che è ancora aitante - la ricordate la faccia di Pierferdy da giovane? Un angelo. Alto 1,85, due spalle così, occhi bruni vellutati, voce da Otello. La sua vera strada era l'attore. Poteva oscurare gli idoli del tempo: Giuliano Gemma e Franco Nero. Si è buttato invece in politica e si è messo a confronto con Cavour e Giolitti. Così, si è dato la zappa sui piedi, come vedremo dalla modesta biografia di questo simpatico primate.
Bolognese, Pierferdy è figlio d'arte. Il babbo Tommaso, professore di Lettere al liceo, era un'eminenza dc locale. Fu segretario cittadino negli anni '50 e capogruppo al Consiglio provinciale negli anni '60. Circondato com'era da comunisti, papà Casini non poteva che essere un dc di destra. Tale e quale a lui divenne il rampollo. Pier era il primogenito di un altro fratello e due sorelle. Molte leggende sul democristianino in erba le divulgò la nonna che lo adorava. Una dice che il dodicenne era rimasto disgustato del '68. Di conseguenza, nella vacanza estiva e famigliare di Lizzano, il frugoletto riuniva in una stanza fratelli e amici e concionava contro i disordini di piazza e le mattane studentesche. Era già un perfetto conservatore. Divenne delegato dei giovani dc durante la segreteria di Amintore Fanfani nel '74 e si laureò in Legge.
Se aprite la Navicella, troverete nella biografia scritta da lui, che è Dirigente d'azienda. Sta lì per bellezza perché alle aziende è stata risparmiata la sventura. Non ebbe infatti il tempo di cimentarsi. La politica lo aveva afferrato. L'episodio centrale dei suoi debutti fu l'incontro, in una cuccetta di seconda classe, con Lorenzo Cesa (segretario Udc), Marco Follini (ex segretario Udc, oggi nel Pd). Stavano uno sopra l'altro e tutti e tre in viaggio per un congresso giovanile della Dc. Bastò una notte per creare tra loro un legame mai interrotto. Il trio aderì alla corrente dorotea, la più moderata e con le mani in pasta. Inseparabili, erano chiamati il Bello, il Bravo (Follini), il Furbo (Cesa). Toni Bisaglia, un doroteo capo, si affiancò il Bello e il Bravo. Gianni Prandini, altro boss, ragionando a voce alta disse: «Ai miei usi si confà il Furbo» e scelse Cesa che divenne il suo reggicoda.
Morto misteriosamente Bisaglia, Pierferdy passò col moderato Forlani, Follini andò a sinistra con De Mita. Cesa, rimasto fedele a Prandini, finì sotto processo per avere raccolto tangenti, fece qualche giorno a Regina Coeli e fu poi assolto per prescrizione. Alti cimenti che, come altrettante medaglie, rinsaldarono l'amicizia.
Quando nel '94 la Dc-Ppi del triste bresciano, Mino Martinazzoli, era alla frutta, Pierferdy capì con lucidità che scoccava l'ora del Cav. Con tempestività da stuntman si catapultò fuori dal carrozzone due mesi prima della vittoria berlusconiana, piantò in asso il crisantemo di Brescia, fondò il Ccd e traslocò armi e bagagli nel Polo. Con sé, portò il Furbo e il Bravo. Nel Ccd, poi Udc, si divisero i compiti. Casini comandava, Follini spiegava, Cesa armeggiava.

Tutti e tre speravano che il Cav durasse poco.
Quello, invece, coriaceo, è ancora lì dopo quindici anni. Questo ha fatto saltare i piani e i nervi del trio. Follini, nel Pd, è alla deriva tra estranei. Cesa è sempre nervoso. Casini - vedi sopra - dà i numeri.

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