nostro inviato a Bridgend (Galles)
Loro, orgogliosamente, la chiamano città. Ma è solo un paese nel sud del Galles. Un paese che vive al contrario. Qui, i genitori non vanno a prendere a scuola i figli piccoli, bensì quelli grandi. Perché i primi rischiano nulla, gli altri rischiano molto. O almeno, hanno rischiato fino a qualche mese fa, quando la noia, insinuatasi sotto diversi, falsi, nomi, ha fatto strage di anime giovani.
La gente di Bridgend vive al contrario, per cui crede sì nella chiesa, sì nelle istituzioni, ma crede soprattutto nello sport. Sorry, nel rugby, che da queste parti vuol dire tutto ed è religione, è stato, è regola, è vita. Così succede che, suo malgrado, questo meraviglioso sport sia al tempo stesso imputato e salvatore. Perché, dice sotto voce la gente di Bridgend, «è l'unica cosa che i nostri ragazzi hanno da fare e chi si impegna nel rugby non pensa ad altro e chi non lo pratica si annoia da morire».
Già, morire. Dal febbraio 2007 all’agosto 2008 si sono tolti la vita ventiquattro giovani. La popolazione conta 39mila abitanti, ma la cittadina fa numero anche grazie a chi vive sparpagliato nei dintorni. Un territorio di piccoli borghi di ex minatori, cottage isolati, rovine medievali. Un mondo che se il sole splende alto e forte come in questi giorni pare anche bello, ma quando è inverno pieno, quando fa freddo e la nebbia è padrona, vien quasi da ammazzarsi.
Già, morire. Qui tutti sostengono che i suicidi a catena siano stati solo una terribile coincidenza, ventiquattro terribili coincidenze, persino quei due ragazzi che si sono impiccati a distanza di poche ore e che abitavano nella stessa via, erano cugini, ma uno si trovava a Bridgend e l’altro lontano, in vacanza. «No» dicono giovani e vecchi, «Bridgend non è la città della morte come l'hanno soprannominata in Inghilterra, non è vero che viverci deprime e allora ci si uccide...». Però i vecchi raccontano che durante la Seconda guerra mondiale l'unico obiettivo che gli aerei tedeschi non riuscivano mai a bombardare era una fabbrica militare di Bridgend. Di notte, durante le incursioni, una coltre di nebbia copriva sempre case e magazzini e i piloti nazisti davano di matto nel cercare il bersaglio.
La gente di Bridgend vive così, sparsa fra campagna, colline e dune. Sì, dune. Perché quando la terra sente l’aria del freddo mare vicino, e sul mare soffia forte il vento del nord, i dintorni di Bridgend diventano affascinanti e misteriosi. Lawrence d'Arabia, il film, proprio quello, fu girato su queste colline di sabbia e arbusti, tanto assomigliavano al deserto. La produzione pensò: «Perché mai fare un lungo viaggio se tutto è a portata di mano?». È quel che pensano i giovani di queste parti, quando il rugby non li attrae e allora s'inventano altro. Come quei tre appena arrivati di fretta. Non giocano a rugby. Posteggiano la piccola utilitaria accanto ai ruderi del vecchio castello di Olgmore e qui, dove l'erba candida del Galles inizia a trasformarsi in arbusti e poi sabbia, sollevano il portellone posteriore, mentre l'unica fanciulla alza a mille il volume delle casse stereofoniche montate sul lunotto. Se ne stanno a far niente, ad ascoltare musica house. Tanto loro non giocano a rugby.
Il paese che vive al contrario ha la stazione dei treni in collina. Giusto così. Inutile obiettare. Parcheggiati davanti s'annoiano anche i taxi, che sembrano pronti a partire per la luna pur di accendere i motori e scappar via. Invece è solo un'impressione. Basta domandare: «Può portarmi nella zona di Ogmore?»; basta ascoltare la risposta: «Troppo lontano, non riuscirei a tornare in tempo per arrivare puntuale quando esce il mio figlio grande da scuola... Chieda al collega accanto». Domanda: «Vorrei andare...»; risposta: «Non posso, alle quattro il mio ragazzo esce da scuola e io...».
Non è paura, è solo il tentativo, quando si può, di stare più vicini ai figli, un’abitudine che si è radicata in molti di loro dopo quella catena di suicidi rimasti senza risposta. Anche se la gente una risposta se l’è data: «Colpa dei media che hanno raccontato i primi casi, scatenando un processo di emulazione». Già sentita.
A Bridgend c'è una sola cosa di cui tutti parlano volentieri, il rugby, e ci sono due sole cose che non devi fare mai: domandare di quei suicidi e dire che sei un giornalista. Il rancore è palpabile. L'unico modo per avere qualche concreta possibilità di non finire nei guai è affrontare il tema alla lontana, qualificandosi come giornalista sportivo amante del rugby. Scegliere, dunque, un approccio un tantino cerchiobottista. Perché poi qui sono anche simpatici, brava gente e talvolta, complice l'incredibile sole, sembra tutto bello, persino bucolico. Eccezion fatta per la grande villa a lato del cavalcavia. È sfitta, abbandonata, neppure la famiglia Addams ci abiterebbe. Se ne sta lì forse da sempre. Ha i tetti aguzzi e poco distante un piccolo cimitero le fa compagnia. Che meraviglia. E siamo nel centro di Bridgend. Il giardino è una selva, al primo piano i vetri sono andati, su un tavolo si scorge un bicchiere sporco ancora pieno di aranciata. Si vede che i giovani di Bridgend che non giocano a rugby la usano per darsi una botta di vita: c'è chi va in «villa» e chi davanti al vecchio castello di Olgmore. Davvero uno spasso.
Il paese che vive al contrario ha strane locandine sui muri e libri a tema in vetrina. Il poster sbiadito dev'essere di una vita fa. Si legge: «Funeral for a friend», funerale per un amico. Non è un annuncio ma un manifesto di una band musicale, metalcore dicono gli esperti. Per farla breve, la band è originaria di Bridgend. Probabilmente i componenti hanno giocato poco a rugby.
Sugli scaffali della libreria all'incrocio della zona pedonale è in bella mostra un libro che va per la maggiore: «The X-Files. The book of the unexplained», il libro dei casi senza spiegazione. Come la catena di suicidi. Alcuni sono avvenuti a distanza di un giorno o di ore, ed erano tutti ragazzi che si conoscevano, ragazzi - si è pensato - che avevano sottoscritto un accordo su internet, chattando su Facebook o Bebo, un altro social network che qui spopola. Gli investigatori hanno scoperto che la pista era tutta sbagliata, il web non c'entrava nulla, nessuno strano messaggio sui computer passati al setaccio. E così, ecco di nuovo tutti a guardare verso la palla ovale. Perché a Bridgend chi l'afferra va avanti, a chi sfugge può scappar via anche la voglia di vivere.
Luke Dyer è un ragazzone biondo e australiano. Ha ancora l'occhio livido per un pestone rimediato nell'ultima partita. Gioca per i locali Celtic Crusaders nella Rugby League, ovvero nel campionato di rugby a 13, una variante di quello tradizionale. È uno tosto. Sta lasciando il Brewery Field Stadium dopo l'allenamento. «Per la gente di questa zona il rugby è tutto, è di più: una religione. Qui non esiste calcio, non esiste altro, solo la palla ovale. A volte mi chiedo che cosa facciano i ragazzi che a un certo punto comprendono di non essere portati per il rugby... Mi rispondo che continuano a giocare ma per solo divertimento. Devono farlo, altrimenti è naturale che possano deprimersi».
Proprio perché il rugby è una religione, sa come salvare le sue anime. Ne è convinto Peter Cavalli, «cento per cento italiano che non parla una parola d'italiano» ama dire ovviamente in inglese. La sua famiglia si è trasferita qui a fine Ottocento. È l'Head coach of the year della Brynteg School. Se la chiesa ha San Pietro, il credo ovale di Bridgend ha questa istituzione. Confina con la cittadina, è imponente e un po' lugubre. Il classico, inquietante, college inglese. «Da questo istituto - dice fiero Peter - sono venuti fuori ben sette Lions», cioè il fior fiore dei rugbisti inglesi. «Nel forgiare campioni, nel Regno Unito, siamo al secondo posto». Il sorriso scompare da dietro i baffoni quando gli si accenna ai suicidi di Bridgend, al dubbio che i giovani o praticano rugby o s'annoiano da morire. «Non credo ci sia un'associazione - spiega -, ritengo più semplicemente che quei ragazzi non avessero interesse in nulla; il rugby non c'entra proprio. Il fatto che molti di loro non fossero degli appassionati è solo una coincidenza. Comunque, noi stiamo molto attenti ad evitare frustrazioni ai nostri allievi. Per esempio, quando fin da ragazzini individuiamo chi è meno dotato, proprio per impedire che si deprima, che lasci questo sport, lo inseriamo in squadre e gironi al suo stesso livello. Di solito sono tre: A, B, C. In questo modo continuano a divertirsi e a praticare anche se non diverranno mai dei campioni».
A quest’ora, molti tassisti sono tutti a recuperare i loro ragazzi a scuola e Peter «cento per cento italiano» decide di sostituirli offrendo uno strappo. «Sabato (ieri, ndr) sarà festa grande - dice - c'è la finale del 6 Nazioni...». Vero. Il paese che vive al contrario attende il grande giorno. Non c'è pub che non abbia tovaglie a tema con impressa la scaletta degli incontri Italia-Francia ore 13.15, Galles-Irlanda ore 15.
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