«Non mi sono mai piegato», è lo slogan che campeggia sul sito internet di Filippo «Pippo» Callipo, candidato presidente della Regione Calabria. Non mi sono mai piegato, intende dire Callipo, alle pretese del racket mafioso che strozza la mia terra. E daltronde la notorietà di Callipo, titolare dellazienda di tonno in scatola che porta il suo nome, è legata proprio alle battaglie contro il «pizzo» imposto dai clan, condotte fin da quando era presidente di Confindustria Calabria. Ora Callipo porta in politica la sua battaglia, candidandosi alla Regione alla testa del suo movimento «Io resto in Calabria», sostenuto dallItalia dei valori e dalla lista Bonino-Pannella in feroce contrapposizione con il candidato del Pd, il governatore uscente Agazio Loiero: contro il quale il «duro e puro» Callipo lancia laccusa infamante di «inciucismo», ovvero di essere pronto a scendere a patti con la destra.
Ma sulla figura di Callipo emerge ora un verbale che fa a pugni con la fama di paladino della legalità conquistata sul campo dallimprenditore calabrese. È un verbale di denuncia che lo accusa senza mezzi termini di avere a lungo, a differenza di quanto proclamato pubblicamente, accettato le richieste dei clan e di essere addirittura un loro «favoreggiatore».
A lanciare le pesanti accuse contro Callipo - che risalgono a due anni fa, quando del possibile sbarco in politica dellimprenditore ancora non si parlava - è un altro personaggio assai noto in Calabria, una signora anchessa a lungo celebrata come un eroina della lotta antiracket: la baronessa Maria Giuseppina Cordopatri, che per le sue testimonianze nei processi a carico della ndrangheta è stata sottoposta a partire dal 1998 al programma speciale di protezione per i collaboratori di giustizia. Dal programma di protezione la baronessa è stata esclusa e riammessa svariate volte. Nel verbale di denuncia contro Callipo, comunque, la Cordopatri indica ancora come proprio domicilio lindirizzo del Servizio centrale di protezione.
Il 15 maggio 2008 Maria Giuseppina Cordopatri si presenta alla stazione dei carabinieri di piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma. Scelta non casuale, perché non si tratta di una qualunque stazioncina dellArma ma di una struttura intorno a cui ruotano da sempre uomini dei nostri servizi segreti. La donna parla ancora dei clan che operano nelle province di Reggio e di Catanzaro. Chiama in causa Callipo, e insieme a lui una sfilza di altri personaggi cui lancia accuse assai pesanti: «Limprenditore Callipo Filippo oltre che vittima è favoreggiatore di queste cosche attraverso contatti politici e collegamenti con le cosche del Vibonese (Mancuso di Limbadi) che cerca di coprire ed appoggiare. Mi risulta che limprenditore nonché mio cugino Callipo per ben due volte è stato indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e salvato da interventi di magistrati amici con archiviazioni».
«I collegamenti - aggiunge - tra Filippo Callipo e i Raso Gerace sono tenuti dal cognato dott. Mangialavori, ex assessore della giunta regionale presieduta da Chiaravallotti, allepoca esponente politico di Alleanza nazionale, oggi referente dellMpa di Raffaele Lombardo». «Il Callipo e il Mangialavori ottennero allepoca della giunta Chiaravallotti numerosi finanziamenti che poi cessarono quando il centrosinistra vinse alla Regione. Il Callipo finita la manna dei soldi pubblici si improvvisò paladino della legalità contro la mafia, mafia che ha invece costituito la sua linfa vitale per lattività di presidente di Confindustria Calabria (...) mio cugino Filippo da anni mi confessava gli obbligatori rapporti con i Mancuso di Limbadi, alle cui feste di famiglia partecipava, matrimoni e battesimi, portando loro ricchi doni (...) Filippo Callipo mi ha sempre consigliato di cedere alle pressioni mafiose perché così lui stesso faceva (...). Quando iniziò il processo e la mia ribellione fu resa pubblica mi comunicò che non poteva più frequentarmi mentre prima era in frequentazioni molto cordiale e addirittura mi ospitava presso la sua villa in inverno, dicendomi che Filippo Raso lo aveva minacciato di incendiargli la fabbrica e che non poteva, per mantenere gli affettuosi rapporti con me, rischiare di lasciare sul lastrico cento dipendenti con le relative famiglie (...). Chiedo che vengano riprese tutte le indagini che hanno riguardato i danneggiamenti che ha subito, fino agli spari al portone di casa e alle serrande della ditta Callipo e che siano riesumate le denunzie che ha fatto e come ha coperto i suoi carnefici, così come mi consigliava di fare».
Parole pesanti, come si vede.
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