
Il 22 settembre il Centre Pompidou - il "Beaubourg", inaugurato nel 1977 - ha serrato le porte: riaprirà nel 2030, e anche solo scriverlo fa un certo effetto. Intervento necessario, ha detto la direzione. L'iconico edificio parigino progettato da Renzo Piano e Richard Rogers richiede una bonifica completa da amianto, poi ci sono problemi di corrosione della struttura e bisogna adeguarsi alle norme di sicurezza e antincendio. Lo studio franco-giapponese Moreaun-Kusunoki e l'architetta messicana Frida Escobedo lavoreranno alla ristrutturazione, anzi alla rifondazione, visto il peso specifico degli interventi: cambieranno anche gli accessi e il percorso del pubblico, quasi tutto insomma. Ma nulla in confronto al cantiere-dei-cantieri, quello del Pergamon di Berlino, che sarà chiuso fino al 2037 e non senza polemiche, in Germania, su tempi e costi (prima pare sottostimati, ora lievitati): ricostruito con materiali di fortuna dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il Pergamon si è scoperto è un gigante di carta con dentro opere monumentali inamovibili (ed è una gatta da pelare non da poco per il governo tedesco). A 50 anni dalla sua apertura (e 57 milioni di visitatori raggiunti) anche il Van Gogh Museum di Amsterdam sta invecchiando "per usura": servono urgenti lavori ma il masterplan del cantiere (preventivo di 104 milioni di euro e tre anni di lavori per sostituire gli impianti e garantire l'efficienza energetica) necessita di ulteriori fondi statali. Se non arriveranno, "il museo sarà costretto a chiudere", ha detto la direttrice Emilie Gordenker al New York Times a fine agosto. E mentre il British ha chiamato l'architetta libanese Lina Ghotmeh per una "riprogettazione" delle Gallerie Western Range (15mila mq, un miliardo di sterline, i lavori inizieranno a metà 2026) ad altre latitudini le gru costruiscono ex novo avveniristiche cattedrali dell'arte: ad Abu Dhabi, tra le altre cose, si lavora per completare il Guggenheim di Frank O. Gehry (che poi è l'architetto che ha ideato il celebre museo di Bilbao, dando inizio al cosiddetto effetto Guggenheim per cui l'architettura iconica di un museo diventa traino turistico per la città). In Occidente i musei paiono invecchiati e pieni di acciacchi, ma sono solo fragili o addirittura malati terminali? Se lo chiede Giulio Dalvit, assistente curatore per la scultura alla Frick Collection di New York, che ha da poco riaperto dopo un lungo restauro ("tutto è cominciato con l'acqua dai lucernai"), ma evitando la chiusura totale grazie a un trasferimento temporaneo in una sede diversa, di stampo brutalista ("utile a ripensare il riallestimento").
Le notizie di tante chiusure eccellenti (e di altrettante eccellenti "rifondazioni") non sono passate inosservate in Italia. "Nessun direttore chiude un museo a cuor leggero, a volte i lavori sono così impegnativi che non si può fare altrimenti", chiarisce Francesca Cappelletti, direttrice di Galleria Borghese dove la manutenzione delle facciate, l'adeguamento degli ambienti del museo e il cambio di tappezzeria è avvenuto senza mai chiudere. Lavoro complicato, ma fattibile ("non sempre, ovvio"). "Capiamo che questo è un lavoro articolato e complesso, ma trasformarsi insieme, senza interrompersi da soli non potrebbe essere la soluzione e, persino, una nuova parola d'ordine?", si domanda Andrea Villani, direttore del MUCIV Museo delle Civiltà di Roma che negli ultimi anni ha avviato numerosi cantieri senza mai interrompere le attività. "Ci siamo mossi anche noi con piccole chiusure parziali, magari con qualche disagio ai visitatori, ma senza dare la sensazione del chiuso per lavori in corso: il museo non è uno show perfetto, uno spettacolo, può anche mostrare i suoi limiti. L'esempio che tengo a mente? La Veneranda Fabbrica del Duomo: cantiere perenne, che non ha mai perso la sua identità e non ha chiuso un solo giorno da secoli", commenta Gianfranco Maraniello, a capo dell'area moderno e contemporaneo del Comune di Milano. E aggiunge: "Chiusure come quelle del Pompidou o del Van Gogh Museum riguardano organismi complessi, ma sono indicativi di una tendenza generale: i musei si usurano per eccesso di pubblico e sono logorati da una burocrazia faticosa, a volte spietata". Che si monitori con ossessione persino eccessiva ogni centigrado prima di movimentare un'opera, trattando i musei alla stregua di "cattedrali contemporanee" dove esercitare devozione assoluta alle norme di conservazione (che spesso cambiano di continuo) lo conferma anche Angelo Crespi, direttore della Grande Brera, a Milano. "Objects come first", dicono però gli anglosassoni: prima di tutto la conservazione. Concorda Thomas Clement Salomon, al vertice delle Gallerie nazionali di Arte antica Palazzo Barberini-Galleria Corsini di Roma e reduce dal successo della mostra-monstre su Caravaggio: la conservazione adeguata degli spazi è un dovere, ma in Italia la sfida è acuita dalla natura degli edifici, ché spesso i musei sono allocati in palazzi storici da tutelare tanto quanto le opere che essi stessi tutelano. Renata Cristina Mazzantini, direttrice della Galleria nazionale d'Arte moderna di Roma, solleva un tema interessante: "Attenzione: anche i cosiddetti musei nuovi invecchiano: l'architettura moderna, lo dimostra il Pompidou, prevede un'obsolescenza più rapida di quella antica". Quindi? È necessario dice - "applicare la manutenzione preventiva programmata e attivare partenariati pubblico-privati soprattutto per la gestione degli impianti e l'efficientamento energetico". Alessandra Necci, direttrice delle Gallerie Estensi, rileva: "Non penso si debba rincorrere ad ogni costo il rinnovamento. Diceva giustamente Michel Foucault che i musei sono eterotopie del tempo accumulato, spazi reali che ospitano una realtà altra, sospesa, dove la memoria prende forma. Credo sia un'indicazione preziosa".
I musei occidentali stanno sì invecchiando, ma forse bisogna smetterla di investire solo su maquillage a canone fisso e globale (risparmio energetico, climatizzazione perfetta, architettura ad effetto-wow) e pensare a nuove forme di sussistenza e terapie di salvataggio.
In fondo, se molte proteste, come quelle sul climate change, cercano visibilità attraverso azioni dimostrative proprio nelle sale dei vecchi cari musei, significa che, seppur acciaccati, i musei nel nostro immaginario contano ancora qualcosa e non sono dati per spacciati. Non è poco.