Caro direttore,
quasi quasi meritava perdere le elezioni per sentire finalmente un leader del centrodestra parlare di strategia politica, di identità di partito, di collocazione ideale, di prospettive. Che superasse la sindrome della vittoria scippata. Che facesse capire che la sconfitta elettorale non è solo colpa di ventiquattromila voti rubati di notte. E che dichiarasse, più o meno apertamente, che bisogna ricominciare da capo, con idee finalmente chiare e definizioni finalmente precise di che cosa la destra è e deve essere.
Nel silenzio sempre più incomprensibile degli altri, vi ha provveduto Gianfranco Fini con il suo discorso al Consiglio Nazionale del suo partito. Spero che sia l'inizio di un dibattito interno a tutta la ex-Casa delle libertà. E spero che abbia successo, perché solo con quel genere di discorso la Casa delle libertà può finalmente uscire dal limbo di una coalizione che una volta vince e un'altra perde, ma sempre dando la sensazione di provvisorietà, fragilità, transitorietà.
Fini sa bene che la vittoria della sinistra è stata occasionale e fortuita, perché la sinistra è in ritardo tragico e irrimediabile con la storia. Ma proprio per questo, Fini sa anche che la destra non avrebbe neppure dovuto correre il rischio di perdere le elezioni se solo avesse riflettuto meglio su se stessa e agito di più sulla propria identità politica e programmatica, senza la quale anche la migliore azione di governo si perde in mille rivoli senza uno sbocco comune ben definito.
Per ricominciare e tornare a governare, Fini propone una formula, «l'alleanza fra produttori di reddito e produttori di valori». Poiché ho detto più volte la stessa cosa, sia pure con formule e terminologie diverse, vorrei commentare il discorso di Fini per contribuire al dibattito da lui iniziato. Userò le sue parole, ma mi avvarrò del mio armamentario concettuale.
I produttori di reddito sono «operai, piccoli e medi imprenditori, artigiani, professionisti, agricoltori, commercianti». In genere, sono tutti coloro che intendono essere protagonisti di sé, quelli che, per professione e attitudine, non affidano più il proprio destino ad uno stipendio o salario ottenuto, ma ad un reddito prodotto, e che perciò intendono essere più attori che rischiano che percettori che consumano.
I produttori di valori sono tutte le famiglie e le persone che, in una società che è cambiata in fretta, ha disgregato antichi legami e sta perdendo nuove sfide etiche, pongono il problema della loro sopravvivenza e riaffermano con consapevolezza il primato del loro valore sulla massa, sulla società e sullo Stato.
Di che cosa hanno bisogno queste due categorie di soggetti? Gli uni, i produttori di reddito, hanno bisogno di «più Stato e meno lacci», cioè più cornice di regole generali per gli attori del gioco produttivo e meno vincoli alle loro iniziative individuali. Inoltre, e di conseguenza, hanno bisogno di «più servizi e meno assistenza», proprio perché essi, volendo essere soggetti protagonisti, rifiutano di sottostare alla guida dello Stato pervasivo e occhiuto, inevitabilmente inefficiente e vessatorio. Infine, e sempre come conseguenza, questi soggetti hanno bisogno di «più privatizzazioni e liberalizzazioni». La conclusione è che i produttori di reddito intendono superare il welfare state e realizzare la welfare community. La differenza fra i due concetti è enorme: nel welfare state il soggetto è destinatario di un'assistenza; nella welfare community il produttore di reddito è protagonista di un'iniziativa. Il concetto che marca questa differenza, sia rispetto allo statalismo che al liberalismo classico, è quello della sussidiarietà, la quale, attenzione, è un metodo e non il contenuto di una politica.
Quanto ai produttori di valori, essi hanno bisogno di cose meno palpabili ma, se possibile, assai più importanti. Hanno bisogno di politiche di identità, in un mondo, specie quello europeo, che crepa di relativismo. Hanno bisogno di politiche di integrazione fondate «sulla accettazione dei valori della nostra società», in un'Europa in cui il relativismo etico sta sciaguratamente trasformando il fenomeno crescente della multiculturalità nell'ideologia perversa del multiculturalismo senza identità (cioè «meticcio», per usare la formula gradita ai benpensanti). E perciò hanno bisogno, questi produttori e al tempo stesso portatori di valori, di politiche della famiglia, della vita, della dignità della persona, tutte cose che l'Europa dei matrimoni omosessuali, dell'eutanasia, dell'eugenetica, delle sperimentazioni sugli embrioni, sta disgraziatamente perdendo, sotto lo sguardo angosciato di Benedetto XVI e purtroppo sotto quello spesso troppo compassato della stessa Chiesa cattolica.
Cerchiamo ora di dare un nome alle cose. I produttori di reddito hanno bisogno di più liberalismo sociale. I produttori di valori hanno bisogno di più conservatorismo morale. La somma è che un partito che voglia rappresentare gli uni e gli altri deve essere un partito conservatore liberale. Conservatore sui princìpi della nostra tradizione, quella giudaico-cristiana, e liberale sulle politiche delle riforme economiche. Conservatore sui valori da cui dipende la nostra identità, liberale quanto a tutte le libertà compatibili con questi valori. Insomma, conservatore sull'eredità dei nostri padri, liberali quanto alle opportunità dei nostri figli.
Rispetto al mondo largo non c'è quasi niente di nuovo: il partito che ha in mente Fini è quello della Thatcher delle virtù vittoriane, di Blair quando ha seguito la Thatcher, di Cameron che sta aggiornando Blair, di Bush che ha seguito Reagan e ascoltato i neoconservatori, di Aznar soprattutto quando ha rimeditato sulle ragioni non occasionali della sua sconfitta, di Koizumi quando ha rinnovato il suo partito, di Sarkozy quando promette di superare il laicismo repubblicano e giacobino. Molto di nuovo invece per l'Italia, perché pressoché mai da noi la destra, anche quella liberale attenta ai produttori di reddito ma spesso insensibile ai produttori di valori, ha pensato alla propria identità in termini così sistematici.
Un partito siffatto si colloca in Europa e nel Partito popolare europeo. Con due avvertenze, però. La prima, dice Fini, che oggi «l'Europa è impaurita, ripiegata su se stessa, disorientata e frammentata» per cui «l'Italia non può più affidarsi solo all'Europa, ma deve contribuire a rifarla». La seconda, che Fini però non dice, è che lo stesso Partito popolare europeo è oggi in buona parte da rifare, affetto com'è, in alcune sue componenti soprattutto tedesche, da residui assistenzialisti poco attraenti per i produttori di reddito, e, in genere, incline a cedevolezze multiculturaliste, relativiste e laiciste, e perciò poco appetibile ai produttori di valori.
Ma la collocazione è corretta, perché è corretto il criterio. Si tratta di fare una «scelta di civiltà», che giustamente Fini definisce come una «questione etica», e, coerentemente, di rinsaldare il «legame transatlantico», il quale «non si limita a ribadire il valore delle alleanze ma si fonda su un comune sentire dell'Occidente».
Parole sante e inizio promettente, anche se non sono sicuro che il mio armamentario concettuale abbia tradotto correttamente il discorso di Fini. Comunque, molto meglio il suo discorso di tante chiacchiere sul neocentrismo, sui sussidi a Prodi, sulle grandi coalizioni, per non dire delle correnti e delle ambizioni personali di questo o quel colonnello disoccupato. Fini ha parlato e non solo ad Alleanza Nazionale.
* ex presidente del Senato
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