I paradisi fiscali? Non sono un’infamia

Nell'ultima puntata di Annozero un tema che ha animato la discussione è stato quello della concorrenza istituzionale. Ovviamente, la puntata non ha sviluppato una riflessione di ordine teorico, ma ha focalizzato l'attenzione sulle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, specie in rapporto al «processo Mills», ma anche con riferimento a Bettino Craxi e ad altri episodi della politica nazionale. Sullo sfondo, però, si è più volte contestata la legittimità del comportamento di quelle aziende che, invece di agire entro un territorio nazionale, si «globalizzano».
Sul banco degli imputati è finita la nozione stessa di impresa multinazionale e, soprattutto, la competizione tra sistemi tributari e regolamentari. In particolare, Marco Travaglio ha tuonato contro i paradisi fiscali e - segnando un punto a favore delle sue tesi - ha anche ricordato le ambiguità del governo attuale, che specie per iniziativa del ministro Giulio Tremonti non perde occasione per attaccare la Svizzera, le isole Cayman o San Marino.
Il tema è serio e merita qualche considerazione. Nella storia occidentale uno dei grandi problemi della convivenza è sempre stato quello - per chi ha a cuore i diritti individuali - di limitare il potere. Uno degli strumenti utilizzati è la costituzione, ma non è l'unico e nemmeno il più efficace. In fondo, la costituzione è «costruita» dal ceto politico a suo uso e consumo, e anche quando fosse ben fatta può essere in vario modo ignorata o modificata.
Un mezzo più incisivo per contenere l'espansione dello Stato è invece la concorrenza tra governi. È in virtù della mobilità dei capitali, delle imprese e delle persone che i governanti frenano la loro rapacità. Se spostandosi dall'Italia al Lussemburgo, o dalla Francia all'Irlanda, non vi fossero vantaggi regolamentari e fiscali, le libertà sarebbero meno garantite.
D'altra parte, perché da anni in Italia si discute tanto di federalismo? E perché da più parti si sottolinea che un processo di riforma federale sarebbe benefico? Esattamente perché ci si rende conto che quando in Basilicata si potranno fissare imposte inferiori a quelle della Campania, o in Marche inferiori a quelle dell'Abruzzo, questa varietà di tributi innescherà un'evoluzione positiva, ponendo vincoli molto rigidi all'esosità del fisco. Questo vale anche per le regole, poiché la competizione tra ordinamenti frena l'ipertrofia legislativa: basti guardare a cosa succede negli Usa, dove in un piccolo stato come il Delaware ha sede oltre la metà delle società quotate a Wall Street.
Secondo taluni questa concorrenza aiuta solo le imprese e i finanzieri, dato che unicamente i ricchi possono cogliere i benefici di tutto ciò. E invece non è così. Come nella trasmissione è stato sottolineato da Tarek Ben Ammar, se con il suo gruppo multinazionale egli non si avvantaggiasse delle opportunità connesse alla concorrenza tra regimi fiscali, egli sarebbe costretto a pagare molto meno quanti lavorano per lui: e gli stessi consumatori dovrebbero spendere assai di più per i beni e i servizi che acquistano.
La molteplicità degli ordinamenti insomma giova a tutti. Proprio per questa ragione il governo sbaglia quando si mette alla testa della spinta tesa ad «armonizzare» i diversi regimi normativi: colpendo i «paradisi fiscali» al fine di tutelare gli «inferni fiscali» in cui noi siamo costretti a vivere.

Ma per lo stesso motivo è importante che il federalismo italiano «in costruzione» poggi su tributi localmente manovrabili. Se comuni e regioni non avranno presto la facoltà di competere per attrarre investimenti e persone, l'Italia perderà un'occasione cruciale.

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