Controcultura

I peccati del prete "noir" di Scerbanenco

Don Paolo è un personaggio degno di Bernanos nella Milano degli anni Quaranta

I peccati del prete "noir" di Scerbanenco

«Desidera, reverendo?» è una formula seducente; quanta ironia, diffidenza ma anche rispetto e docilità emana questa frase d'altri tempi. Desidera (solo con la fantasia) anche don Paolo, il prete malato di tubercolosi protagonista di uno dei primi romanzi di Scerbanenco, Luna di miele (La nave di Teseo, pagg. 174, euro 17). Venuto a Milano per una visita medica, il sacerdote sta per salire sul treno che lo riporterà nella sua parrocchia quando in un bar della stazione scorge «il marito della piccola Lena», Alberto, un uomo grosso come un orco. È stato don Paolo a sposarli nove anni prima, quando i due vivevano ancora in paese. Dopo il trasferimento nella capitale lombarda è passato a salutarli un paio di volte, per costatare che il matrimonio era fallito e che fra i coniugi dominava il più acre risentimento. La testa china sul tavolino del bar, Alberto è evidentemente stravolto e nemmeno lo riconosce. Sentendo puzza di bruciato, don Paolo teme che Lena sia in pericolo e va a trovarla, sale le scale di un anonimo condominio moderno e quando giunge al pianerottolo si accorge che la porta è aperta. Visto che nessuno risponde al campanello entra, fa il giro delle stanze, crolla su una poltrona; finché non scorge sul letto la padrona di casa, strangolata.

Quel che accade dopo è una sequenza di peccati che sono anche dei reati: don Paolo non rivela al commissario che indaga sull'omicidio di aver visto il marito di Lena, sorvola sull'inferno domestico in cui consisteva la vita della coppia e, approfittando di un biglietto letto di sfuggita, si reca nel luogo dove Alberto, il probabile assassino, ha un appuntamento con un'altra donna, Eva, che avrebbe sposato se Lena, dopo averlo sedotto, non avesse inventato una gravidanza inesistente per incastrarlo.

Il resto del romanzo ha un andamento ossessivo, in gran parte mentale, dominato da un'esorbitante casistica: nel disperato tentativo di far sì che a tragedia non segua tragedia, il sacerdote pedina Alberto ed Eva attraverso una periferia milanese fatta di villette e alberghi a ore, spingendosi fino a prendere una stanza accanto alla loro in un albergo per coppie clandestine, come se solo la vicinanza fisica permettesse la lettura del pensiero, la ricostruzione allucinata (ma che si rivelerà veritiera) di un omicidio necessario. Se il concetto di «vivere vicario» (attribuito al dottor Leavis) ha mai avuto un senso, è il caso di don Paolo il quale non fa che immaginare quello che secondo lui è il «male» per poi ritrarsene, inorridito.

Difficile stabilire a quale lettore pensasse Scerbanenco nel 1944 mentre scriveva Luna di miele nel campo profughi di Coira, in Svizzera: di certo anche a una piccola borghesia involuta che ama spiare l'altrui camera da letto dal buco della serratura ma per farlo ha bisogno di uno stigma, la scandalizzata voce fuori campo della Chiesa. Ed è, in fondo, un peccato perché, fatta la tara dell'intreccio pruriginoso, Scerbanenco era a un passo dalle storie abissali di Bernanos, che aveva già pubblicato i suoi capolavori; e forse sarebbe bastato un supplemento di ambizione per anticipare gli inarrivabili preti dilaniati di Tenessee Williams o di Graham Greene. Luna di miele dispiacque a don Menghini, il religioso che fu vicino a Scerbanenco negli anni della guerra e sulla cui figura fu modellato il protagonista del romanzo.

Forse perché sconvolto dal tema del racconto, ma avrebbe anche potuto irritarsi per essere stato accostato a un sacerdote bigotto che confonde la psicologia del sesso con la psicologia di un prete.

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