Credo che molti lettori ricordino quanto io fossi amico di Francesco Cossiga, e anche quanto abbia pagato questa amicizia che mi confinò a lungo nel cono d'ombra di chi va controcorrente. Ma a vent'anni dalle sue dimissioni da presidente della Repubblica (lo accompagnai in aereo a Dublino, dove lo aspettava una macchina per portarlo in un convento a meditare) lo voglio ricordare anche per il più grave errore che commise: portare D'Alema a Palazzo Chigi mentre governava Prodi (che aveva vinto le elezioni del 1996) per compiacere gli americani. L'amministrazione Clinton aveva chiesto l'uso delle basi militari e un governo amico e di sinistra in Italia per bombardare la Serbia. E fu così che Cossiga nel 1998 acciuffò Massimo D'Alema e lo convinse a fare lo sgambetto a Prodi con un colpo di maggioranza trasformista in Parlamento. E così fu. Palazzo Chigi diventò allora una «Merchant Bank», la «banca d'affari», l'unica - si disse - in cui non si parlava inglese. Ricordo l'episodio perché oggi è uno dei cavalli di battaglia di Matteo Renzi contro D'Alema, che vuole rottamato.
Quanto al resto, Cossiga oggi va ricordato per essere stato il solitario eroe che si spese per impedire la vittoria della «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto e convincere il Cavalier Silvio Berlusconi a scendere in campo quando ancora il futuro fondatore di Forza Italia sperava che a prendere l'iniziativa fosse Mario Segni, allora sulla cresta dell'onda. Cossiga era un uomo solo e le sue idee erano chiare e distinte, ma con venature di nevrosi che lo accompagnarono per tutta la vita, come spesso accade alle persone intelligenti. Era cattolico come pochi, ma era anche un liberale: un liberale cattolico in Italia è una merce rarissima, quasi introvabile. Era convinto del primato della politica e aveva sovrapposto alla sua anima sarda una pellicola di ammirazione e quasi devozione anglosassone, benché il suo cuore battesse per gli irlandesi e i baschi dell'Eta, cosa che lo mise spesso in pessima luce nelle cancellerie europee. Era convinto che esistesse una continuità dell'antico Regno di Sardegna nell'Italia di oggi e faceva notare con soddisfazione che i leader comunisti per mezzo secolo sono stati soli sardi (Gramsci e Berlinguer), liguri (Togliatti e Natta) o piemontesi (Longo). Dei comunisti era innamorato perché li detestava: sentendosi un uomo anche di intelligence, aveva adottato il criterio di conoscere profondamente e amare il nemico da combattere. In questo modo ripeteva lo schema di molti grandi romanzi di spionaggio come quelli di Le Carré in cui il capo del controspionaggio inglese Smiley adora i nemici con cui è in guerra mortale. Mi raccontò che quando i comunisti si rifornivano annualmente di una valigetta piena di milioni di dollari che a Mosca Ponomariov consegnava all'inviato del Pci, lui come sottosegretario e poi ministro degli Interni sapeva benissimo quel che succedeva e chiudeva tutti e due gli occhi come facevano tutti. L'uomo che tornava da Mosca, prima di portare i soldi a Botteghe Oscure, veniva accompagnato da ufficiali di governo Oltretevere nella baca vaticana dello Ior di Monsignor Marcinkus, dove il denaro veniva esaminato sotto gli occhi di agenti del Tesoro americano i quali volevano solo esser certi che i dollari non fossero falsi. Quindi il Vaticano - raccontava Cossiga - cambiava i dollari in lire e l'inviato del Pci portava a casa il suo tesoro con la soddisfazione di tutti. Perché tutti erano soddisfatti? Perché - ricordava Cossiga - in questo modo tutti i partiti erano autorizzati a procacciarsi enormi somme illegali di denaro: "Se i comunisti giocano sporco con i soldi dei russi, noi giochiamo sporco per pareggiare il conto".
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