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I pm sfidano il giudice: "Arrestate Penati"

La Procura ricorre contro il "no" del gip alla carcerazione: "C’è la concussione e ha tentato di inquinare le prove". Ad aprile gli indagati si avvertivano via sms: "Telefoni sotto controllo"

I pm sfidano il giudice: "Arrestate Penati"

Milano La Procura di Monza insiste. Filippo Penati, ex braccio destro del segretario Pd Pier Luigi Bersani, va arrestato. E con lui anche il suo ex capo di gabinetto in Provincia, Giordano Vimercati. I pm Walter Mapelli e Franca Macchia, infatti, hanno già depositato il ricorso al tribunale del Riesame contro la decisione del gip Anna Magelli, che nell’ordinanza di custodia cautelare ha «ritoccato» l’accusa mossa all’esponente del Partito Democratico (che ieri si è autosospeso) da concussione a corruzione, evitandogli così il carcere.
Una lettura degli eventi - quella fatta dal giudice - non condivisa dai pubblici ministeri. Perché Penati, per i pm, si è comportato «come un delinquente matricolato», tentando fino all’ultimo di condizionare le indagini, chiedendo al costruttore Giuseppe Pasini «cosa hai detto e cosa ti hanno chiesto i magistrati di me», intervenendo ancora nel giugno scorso con i sindaci di Cinisello Balsamo e Segrate in favore dell’imprenditore Piero Di Caterina «temendone le rivelazioni». Per la Procura, questo, si chiama «inquinamento probatorio». Così come appare inquietante la consapevolezza degli indagati di essere finiti nel mirino del magistrati e della Guardia di finanza. Nell’aprile scorso, - dunque a tre mesi dalle perquisizioni che renderanno «pubblica» l’indagine - Vimercati avvisa gli altri indagati: «Avete i telefoni sotto controllo». Ancora, il 28 aprile, una ex collaboratrice di Vimercati viene sentita come testimone dai pm. L’interrogatorio non è di particolare interesse investigativo. Ma, curiosamente, qualche ora più tardi sul cellulare di Penati arriva un messaggio dal suo portavoce Franco Maggi. «No tel, no news, no problem». Secondo gli inquirenti, è la prova che le notizie sull’inchiesta ormai circolavano in maniera pericolosa. La stessa collaboratrice riferirà a un amico: «Giordano (Vimercati, ndr) mi ha detto che è un casino, tutti i telefoni sono intercettati tranne il mio».
Ma non c’è solo il rischio di inquinamento probatorio. Perché tutto si gioca sul confine sottile che distingue la corruzione dalla concussione, e che ha garantito a Penati la prescrizione dei reati contestati dai pm. Nelle venti pagine di ricorso al Riesame, infatti, Mapelli e Macchia ribadiscono quanto già sostenuto nella richiesta d’arresto dell’ex vicepresidente del consiglio regionale della Lombardia. Ovvero, che il rapporto tra le parti - i politici da un lato, gli imprenditori dall’altro - «non poteva considerarsi paritario. Penati avrebbe richiesto il pagamento di una somma di denaro (20 miliardi di lire, ndr) subordinando a tale pagamento l’auspicato buon esito della pratica amministrativa relativa all’area ex Falck e dunque il compimento di un atto pubblico (l’approvazione del piano) sul cui procedimento di approvazione in tempi congrui lo stesso Penati, per la carica istituzionale rivestita, era fortemente in grado di incidere». Insomma, se per il gip c’era un accordo condiviso tra i soggetti che sedevano al tavolo del malaffare, per la Procura erano Penati e Vimercati a dettare le condizioni, chiedendo soldi e imponendo l’ingresso delle coop rosse nel maxi-affare della riqualificazione della aree industriali, così da «garantire la parte romana del partito».
Perché, infine, c’è proprio il capitolo del finanziamento illecito al Pd (prima, Ds). Stando alla confessioni di Di Caterina, i soldi al partito sarebbero stati versati - tramite Penati - a partire dai primi anni ’90 come «prestiti alla politica, non erano personali a Penati, ma riguardavano l’intero gruppo dirigente sestese. Penati e Vimercati prendevano i soldi e almeno una parte di questi veniva dirottata per le esigenze sestesi e milanesi del partito». In particolare, la Procura ritiene provato il passaggio di denaro fino alle casse dei Democratici attraverso una finta caparra immobiliare da 2 milioni di euro. Un’operazione del 2008 - bel lontana dunque da una possibile prescrizione - tra Bruno Binasco (manager del costruttore Marcellino Gavio) e lo stesso Di Caterina. Un episodio che va letto come una «macroscopica anomalia», ammette il gip. Ma per la Procura c’è altro.

Ci sono gli assegni, il contratto preliminare e una lettera successiva al contratto che proverebbero come quell’operazione fosse del tutto fittizia, e finalizzata solo a creare fondi neri da destinare alla vorace macchina della politica.

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