"I premi? Purtroppo non sono gare vere"

Il candidato allo "Strega" spiega come intende la competizione fra scrittori: una contrapposizione anche dura fra generazioni e modi di intendere la letteratura diversi. "Ma senza match truccati..."

"I premi? Purtroppo non sono gare vere"

La copertina dell’ultimo romanzo di Antonio Scurati, Il bambino che sognava la fine del mondo (Bompiani, pagg. 398, euro 18, in uscita oggi) ha qualcosa di doppiamente familiare. Chi conosce personalmente l’autore si accorgerà subito che lo sguardo enigmatico in primissimo piano è proprio il suo. Chi invece si è limitato ad aver avuto tra le mani la cover del best seller premio Strega 2008, rileverà una certa similitudine coi «numeri primi» di Paolo Giordano. Anche quella di Scurati è la storia di un trentennio di vita, dall’infanzia del protagonista ai giorni nostri, ma il taglio è del tutto diverso. Come lo sguardo. Là un esordiente figlio degli anni Ottanta si concentrava sull’ombelico proprio e dei suoi migliori amici. Qui uno scrittore classe 1969 si ribella ai soggetti che hanno, a suo dire, rubato identità e speranza a un’intera generazione attraverso un inflessibile processo di ipnosi regressiva: il sistema mediatico. Secondo Scurati, soltanto una forza può opporsi al processo suddetto: l’arte. Nello specifico, la letteratura. Ancora più nello specifico, questo romanzo.

Scurati, prima che il romanzo abbia inizio, lei tiene a chiarirne, a pagina 4, gli intenti: «La vocazione della letteratura è superare i confini tra realtà e finzione».

«Il romanzo prende spunto da vari fatti di cronaca realmente accaduti. Si tratta perciò di un atto dovuto per evitare problemi legali. Ma anche di una dichiarazione poetica: che la letteratura, quando si occupa di cronaca, non faccia come i media - tv in testa a tutti - nell’operare una confusione programmatica tra realtà e finzione. Viviamo il tempo della cronaca, la legge è: “Ogni giorno un delitto, un delitto al giorno”. E uno dei grandi inganni nell’universo della cronaca è quello in cui si finge l’esperienza diretta. Commento spesso sulla Stampa fatti di cronaca. La gente mi scrive perché sembra che noi ne sappiamo qualcosa. Ma non ne sappiamo niente. L’ideologia dell’esperienza vissuta in prima persona è un inganno. Ci nutriamo delle vite degli altri, ma è un pasto nudo».

È la solita predica sui media che mistificano la verità?
«Siamo oltre. Il punto non è più la manipolazione della realtà. Ma la creazione di un mondo in cui la distinzione basilare e antropologica tra reale e fittizio non è più nemmeno pertinente».

Un mondo fisiologico per i nostri tempi o cercato in modo patologico?
«Lo proclamo: si tratta di patologia. Che dal punto di vista sociale ha conseguenze gravi».

Ovvero?

«Gliene cito due, che appartengono alla sfera pedagogica. Stiamo crescendo intere generazioni abituate ad assistere a violenze realmente accadute come si assiste a messe in scena funzionali. Il dispositivo di ricezione con cui si guarda Porta a porta o Matrix è lo stesso delle fiction. Questo porta alla scomparsa della compassione. Diventiamo non apatici, ma feroci. Non coraggiosi, ma vigliacchi. Viviamo di sensazioni, mai di sentimenti».

La seconda?

«Riguarda la capacità di condividere la gioia. Se vado a vedere The Millionaire, mi commuovo per le vicende di un ragazzino indiano che ribalta il proprio destino, uno che non sarò mai, e questo stimola empatia con altri esseri umani. Invece, milioni di adolescenti che si esaltano e si eccitano perché un mediocre come Marco Carta - che è un artificio televisivo e non un cantante di talento - vince Sanremo con una canzone più che mediocre, non condividono la sua gioia, ma si illudono di diventare lui. Vogliono essere lui e dunque dovranno fare fuori lui: un mimetismo perverso per cui l’invidia sociale diventa il collante della società».

La letteratura come interviene?

«Siamo un commando che sfonda, crea una breccia in questa morbosità confusiva e per farlo si rappresenta anche in prima persona. In questo libro racconto la storia di un bambino degli anni Settanta, membro di una generazione che non aveva mai conosciuto la guerra ma cresciuto con le immagini dei terroristi in tv. Un figlio dell’Occidente agiato e pacificato che a sei anni guarda le immagini di un vecchietto acciambellato nel bagagliaio di un’auto e le confonde con quelle dei cartoni marziani e dei vampiri. Diventa adolescente negli anni Ottanta, quando si è ormai creata una rete vastissima di complicità tra le istituzioni e i media».

In che modo?
«La famiglia cerca se stessa in tv. La Chiesa aveva un papa come Giovanni Paolo II, che aveva sposato la comunicazione di massa: in Sudamerica oggi manco sanno chi è Ratzinger. Scuola, università e ceto intellettuale cedono, sebbene controvoglia, il loro compito alla tv, principale agenzia educativa del Paese. Ovviamente quel bambino sono io».

La copertina parla chiaro.
«Lasciamola parlare. Per denunciare quel sistema in maniera letterariamente veritiera e non moralisticamente ipocrita bisogna collocare se stessi nel quadro, pensare con radicale spietatezza alla propria radicale ambiguità».

In fondo anche lei qualche volta è stato ospite dei talk show.

«E ho smesso di farlo».

Il libro sembra a tratti un lascito a un bambino che sta per arrivare. È così?

«Della vita privata non parlo. Tuttavia sì, è un benvenuto a chi ancora non ha messo piede in questo mondo. Non abbiamo più l’ardire di pensare a noi stessi in transito su questa terra e di lasciare un patrimonio alle generazioni successive. Non ci sentiamo più padroni della terra su cui mettiamo i piedi. Non siamo più sovrani del presente. La nostra è una generazione infeconda, in tutti i sensi».

Possiamo guarire?

«Non vedo una guarigione, ma una cura. Un compito di vita: diventare padri. Dicono che non facciamo figli perché abbiamo troppi soldi in tasca o scopiamo con troppa gente. Credo sia invece per malessere. Siamo una porzione di umanità regredita ai terrori dell’infanzia».

Siamo impotenti?

«Alla mia generazione questo mondo non piace e non ci darà mai ciò che ci aspettiamo. Politicamente, a esempio, io non mi sono mai sentito rappresentato in tutto l’arco della mia vita. Dopo gli ultimi fatti della sinistra, a cui apparterrei in teoria, ho smesso anche di sperarci. Non toccherà a noi. Quindi dico: alleviamo una generazione futura».

Lei si è contrapposto anche al sistema letterario. In questi giorni è nell’occhio del ciclone per il premio «Strega»...

«Non vorrei parlare di questa polemica, abbasseremmo il livello».

Parliamo di premi in generale. È possibile trasformare questi eventi, come altri in campo culturale, in un confronto produttivo tra generazioni di scrittori, nel segno di quanto ci ha detto sinora? A esempio lei, Del Giudice, Tabucchi, appartenete a generazioni un po’ diverse...
«Molto diverse. A me piacerebbe molto una contrapposizione franca e aperta, anche dura, tra diverse generazioni di scrittori. E anche che i premi potessero essere l’occasione per misurarsi su due diverse idee di letteratura. Ma dovrebbero esserci le condizioni».

Non dovreste crearle voi stessi scrittori?

«Un match truccato non lo consente. Con questo non voglio affermare che i premi letterari siamo match truccati, ma dubito che possano diventare un vero spazio agonistico. Con Il sopravvissuto ci provai. Entrai in un meccanismo nel quale non mi riconoscevo, gli industriali veneti, i cerimoniali, e quando mi sono trovato al cospetto di Bruno Vespa, che rappresenta un certo modo di fare televisione che non condivido, l’ho affrontato di petto: uno stanco cerimoniale intellettuale si è trasformato in un’arena simbolica.

Non sono sicuro che sia sempre possibile, ma laddove lo fosse, ci sarò. A rappresentare il mio libro e solo il mio libro, però, per una contesa di eccellenza. Se invece, come diceva Walter Chiari, “Sali sul ring con le tue gambe, ma sai che ti porteranno via a spalla”...».

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