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I ribelli vincono anche a calcio In campo la nuova nazionale

È finita con le lacrime di Riyadh Al Laafi, l'autore del gol partita, che si è sciolto in un pianto convulso di fronte alle telecamere. Nello spareggio per un posto in Coppa d'Africa la nazionale di calcio della Libia del dopo-Gheddafi ha regolato il Mozambico, ma soprattutto ha voluto urlare al mondo che i tempi sono davvero cambiati. Nel paesaggio lunare del vetusto e blindato "Petro Sport Stadium" del Cairo le gesta sportive si sono mescolate all'entusiasmo di raccontare un nazionalismo scevro dalle catene di 42 anni di feroce dittatura.
Fino a venerdì sera quelli del Mozambico neppure sapevano chi avrebbero affrontato. L'allenatore dei libici, il brasiliano Marcos Paquetá, aveva diramato da Tunisi una lista di convocati ignorando chi avrebbe raccolto l'invito. Dei trenta atleti precettati se ne sono presentati in tutto quattordici. A completare la truppa c'erano otto virgulti dell'Under 17, atterrati all'aeroporto Al Duwaliyy due ore prima del fischio d'inizio. Sembrava un'armata brancaleone timorosa e raccogliticcia. Vittima sacrificale lo è stata solo a parole. Quando i libici hanno scrutato allo stadio il drappo con i colori rosso, nero e verde, la bandiera cara a re Idris Senussi che Gheddafi aveva interdetto, lo spirito belluino li ha animati. In campo è stata partita vera. Undici ragazzi orgogliosi, ciascuno con il proprio lutto nel cuore. A partire proprio da Al Laafi, che dopo aver battuto il portiere Kampango con un diagonale imprendibile ha alzato lo sguardo al cielo per salutare suo fratello Moneer, ucciso dai fedelissimi del Muammar durante gli scontri di giugno a Misurata.
Storie di disumana sofferenza, come quella del portiere Jumaah Qutait. Lui gioca nell'Al Ahly, la squadra degli ammutinati che con un gesto clamoroso aveva aderito lo scorso 25 giugno al fronte dei ribelli. Appena si è sparsa la voce del "tradimento" hanno fatto sparire suo padre, prelevandolo di notte dall'abitazione, come accadeva in Argentina ai tempi della dittatura dei generali. Un desaparecido della primavera araba. Qutait sabato pomeriggio ha mantenuto inviolato il fortino, sventando gli attacchi dei vari Helder e Nelsinho, ma soprattutto dimostrato che lui è uno dei migliori portieri del Maghreb nonostante Saadi Gheddafi gli preferisse un raccomandato uruguayano. C'era anche il playmaker Djamal Mahamat, tornato a giocare in nazionale dopo un lunghissimo ostracismo. A febbraio era riuscito a far scappare alcuni compagni offrendogli un rifugio sicuro in Portogallo, diventando così nemico giurato del regime.
«Gli slogan della libertà sono diventati realtà e non solo inchiostro su carta», ha riferito Mohammed Barakat, commentatore della tv libica. «Non ti dimenticheremo Mohammed, nostro combattente e martire», si leggeva invece sulla t-shirt del barbuto difensore Ahmed al Tawerghi. Al Laafi, l'eroe della giornata, ricordava ai microfoni di Nile Television che «è stata una giornata speciale.

Non solo per il calcio, ma per chi con il sangue ha permesso che potesse venire esposta la nostra vera bandiera». E mentre Al Laafi si esprimeva con parole profonde il portiere del Mozambico nobilitava il terzo tempo abbracciando uno alla volta tutti i ragazzi della squadra di Paquetá.

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