Cultura e Spettacoli

I sensi di Bevilacqua incantano ancora

Lo scrittore non si definisce un romanziere, ma un autore di «narrazioni». E nei suoi libri, riproposti ora da Mondadori, prevale sempre il lato poetico, mitologico e popolare della commedia umana

I sensi di Bevilacqua incantano ancora

Non molte sere fa, su una di quelle geometriche e aperte piazze di Modena dove l’Emilia mostra un volto ducale e popolare, ho incontrato Alberto Bevilacqua. In precedenza l’avevo incrociato soltanto in studi televisivi, e più recentemente all’incontro degli artisti con Benedetto XVI. Abbiamo scambiato qualche parola in più, e poi l’ho ascoltato mentre rispondeva in pubblico alle domande di Alberto Bertoni, il critico modenese che ha ottimamente introdotto il «Meridiano» Mondadori a lui dedicato e appena uscito (Romanzi, pagg. CXX-1677, euro 55).

Non so come, da quell’incontro ho visto un Bevilacqua che forse non mi aspettavo. Un uomo che ha avuto tutto dalla sua carriera di scrittore, eppure ancora provato da una invincibile scontentezza, e abitato da una dolce malinconia depressiva, da una specie metafisica di stanchezza. Qualcosa che può appartenere soltanto a un poeta, come Bevilacqua è stato sempre e continua a essere. Le sue poesie, sottolinea Bertoni, sono estranee alle linee dominanti negli anni in cui Bevilacqua esordisce, dunque al tardo ermetismo e al neorealismo, e in genere tutto il suo lavoro letterario mostra una capacità quasi unica di suscitare il fascino del lettore e di mantenere viva una vocazione originale e a suo modo sperimentale. Bevilacqua lo ha detto spesso, e quella sera lo ha ripetuto dal palco in piazza: non si sente un romanziere, ma l’autore di «narrazioni».

Ho provato a rileggerlo sulla base di questa distinzione. Cosa sono le «narrazioni»? Che legame hanno con la poesia, con le conte popolari, la mitologia, piuttosto che con l’artificio romanzesco? Sono partito da La Califfa, il primo grande successo di Bevilacqua, il libro che lo ha consacrato come autore dal vastissimo pubblico, anche attraverso la trasposizione cinematografica eseguita come regista da lui stesso. La Califfa è un libro potente, pervaso da una musica da ballata popolare, e insieme ha qualcosa a che fare con l’opera lirica, con la sua drammaturgia essenziale e a forti tinte. Irene Corsini detta «la Califfa» è un personaggio a tutto tondo, fascinoso e fatale, bella, provocante, libera, irriverente, tenera, coraggiosa, capace di affrontare la vita con irruenza e disperata felicità. La vediamo giovane sposa con il primo marito Guido, mentre prova la prima gioia del sesso sull’erba, con i treni che passano lontani, diretti chissà dove. La vediamo quando, moglie delusa e sola, che ha perso un figlio e ha visto il marito abbrutirsi, flirta con Vito Alibrandi, fiero della sua motoretta e della sua bravura al gioco del calcio. E quando poi, già amante del potente industriale Doberdò, prorompe contro Gazza il politico corrotto e umilia il conte Pedrelli servendosene come istruttore al maneggio.

Sarà un caso, ma due passaggi chiave del libro hanno a che fare con il canto. La sera del 24 giugno, alla festa popolare, la Califfa intona un’aria dalla Traviata e Vito duetta con lei, facendo insorgere il marito che poco dopo va a morire e a riscattare il suo orgoglio di operaio e partigiano immolandosi contro i celerini durante una manifestazione di piazza. E grazie all’incoraggiamento della sua grande materna amica Viola, suo alter ego nel mondo delle «slandre», è entrando trionfalmente nella platea di un teatro d’opera che la Califfa viene notata dal potentissimo Doberdò. La Califfa è dunque una soprano che entra con la potenza lirica della prima persona nel tessuto della storia, raccontata prevalentemente in terza. Doberdò, al contrario, non canta, o almeno non canta da tenore. Il suo è un personaggio molto ben riuscito, tramato sulle corde della malinconia, del presentimento della fine e di un vitalismo recuperato grazie proprio all’amore con la ragazza dell’oltretorrente, la zona povera e in parte reietta della città. Il boom economico è iniziato, e Doberdò può passare in breve da una piccola azienda agricola a un impero economico internazionale.

Soltanto, c’è qualcuno, e nella fattispecie la moglie Clementina, esangue snob, ricca e aristocratica, che con il suo nervosismo intellettuale gli ricorda che senza di lei sarebbe ancora in una stalla. Doberdò vive circondato dal servilismo dei più, complici in nome di affari e potere, e dalla ipocrisia di Martinolli, prete politico e opportunista. La Califfa lo libera. L’amore per lei gli ridà un vigore inatteso, una giovinezza tardiva ma non meno vitale. Mentre riceve in una stanca processione politici, consulenti bancari, professori, non fa che pensare alla giovane amante e ripetersi ritmicamente: sono vivo. Che cosa è più importante, che essere vivi? E a messa, dopo essersi confessato da Martinolli, Doberdò immagina ancora la Califfa e scopre che solo pensando al suo peccato si sente puro.

Vitalità, gioia sessuale e purezza sono qualità essenziali dei personaggi di un maestro come D.H. Lawrence, e non è forse un caso che Alberto Bevilacqua abbia in seguito mostrato interesse per questo autore, che colpevolmente buona parte della cultura italiana ignora. Con L’occhio del gatto arriva il momento dell’ironia (ma la pagina in cui Marcello, il cineoperatore in crisi, vede avanzare nelle paludi del Vietnam i piccoli «caronti» che portano sui loro barchini i cadaveri da affittare per foto e riprese, è di straordinaria potenza drammatica), con Una scandalosa giovinezza e il personaggio di Zelia Grossi siamo nell’ambito del romanzo storico, con I sensi incantati Bevilacqua si muove verso zone oscure della sensibilità contemporanea, rasenta le tematiche New Age e dalla Parma magica porta il lettore verso un lontano mondo sciamanico.

Ancora narrazioni palpitanti di gioia e di sofferenza, di domande e di mancate risposte sui principi primi e ultimi della vita, sperimentazioni a caldo e a tutto campo del poeta che esordì adolescente con versi come questi: «Io cerco un ventre/ orgoglioso e umiliato/ per morirci teneramente/ come ci sono nato».

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