Igiene verbale L’ipocrisia del politicamente corretto apre le porte al turpiloquio

DISIMPEGNO Non si rischia nulla, non ci sono pericoli. Tranne quello di incontrare le persone con cui «chatti»

Le università americane sono state le incubatrici del «politicamente corretto» che in molti Paesi ha colmato il vuoto lasciato dalle ideologie. Da tempo in America si discute del fenomeno (uno degli ultimi libri sull’argomento è The Politically Correct University a cura di Frederick M. Hess, Robert Maranto, Richard E. Redding, AEI Press, 2009), ma in Europa non manca chi tenta di giustificarlo o, peggio, di applicarlo. Il filosofo Bernard-Henri Lévy, a esempio, sostiene che nell’«igiene verbale» del pc c’è il lodevole proposito di eliminare dalle parole «il peso dell’infelicità umana», come se nel vocabolario potesse rimanere solo il suo contrario, ossia la felicità.
Bandire certe parole sgradevoli non servirebbe a nulla perché ne sorgerebbero altre dello stesso tenore. Ma se anche si riuscisse a soppiantare il lessico comune con espressioni più o meno asettiche o edulcorate, come Orwell paventava in 1984, non per questo l’infelicità cesserebbe. «L’invalido si alza forse dalla carrozzella, o ci sta più volentieri, perché qualcuno ai tempi dell’amministrazione Carter ha deciso che lui è ufficialmente un “ipocinetico”?», si domandava Robert Hughes in La cultura del piagnisteo. E cosa guadagna una persona di bassa statura a farsi chiamare «verticalmente svantaggiata»? Ne guadagna (forse) solo il disonesto, quando lo si chiama «ethically disoriented».
Nel nostro Paese questa «pulizia linguistica» ha avuto fortuna soprattutto in ambito politico-sindacale. Così uscieri e infermieri sono diventati rispettivamente «personale non docente» e «paramedico», mentre professori e medici sono andati a occupare una non ben definita «posizione apicale». Qui non abbiamo rivali. Lo spazzino è diventato prima «netturbino» e poi «operatore ecologico», mentre il francese non ha che l’antiquato boueur, derivante etimologicamente da boue (fango), e il tedesco è fermo a Müllmann (uomo della spazzatura, spazzaturaio). Promuovendo l’imbianchino a «pittore (edile)» abbiamo emulato persino il Barocco, in cui il barbiere veniva chiamato «tonsore di guance». Ma mentre nel Seicento si trattava di ingegnosità anche umoristiche, oggi il senso del ridicolo sembra smarrito e si vorrebbe introdurre la cosmesi verbale anche nella scuola, dove si dovrebbe insegnare, a esempio, che invece di «pigro» si dice «privo di motivazioni» e invece di «zoo», che ricorda la cattività degli animali, «bioparco».
All’argomento è dedicato il recente convegno «sul sessismo e sul potere discriminatorio delle parole» svoltosi all’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» sotto l’egida del Laboratorio di Studi Femministi «Annarita Simeone». Nel corso dei lavori sono state discusse «diverse proposte finalizzate alla presentazione di possibili usi linguistici ispirati al politicamente corretto (...) allo scopo di creare percorsi didattici non-discriminatori». La parte del leone l’ha fatta il cosiddetto sessismo del linguaggio, basato su di un equivoco molto diffuso, che porta a confondere il genere «naturale» con quello grammaticale, per sua natura largamente convenzionale. «Sentinella», non si riferisce a una soldatessa e con «la tigre» non si intende un animale di sesso esclusivamente femminile, altrimenti dovremmo dire, all’occorrenza, «sentinello» e «il tigre». E tavolo-tavola-tavolino? Formano un nucleo familiare? La lingua italiana non offre appigli a chi vorrebbe codificare, a esempio, l’uso di «ministra», pensando che si possa fare il femminile (o il maschile) di qualunque termine, non importa se i risultati saranno cacofonici, e che così si conferisca dignità alla donna.
La lingua non si può plasticare a volontà, diceva Giovanni Nencioni a proposito del libro di Alma Sabatini citato nel convegno: quelle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana (Poligrafico dello Stato, 1986), indirizzate alla scuola e all’editoria scolastica con l’avallo dell’allora presidenza del Consiglio. Possiamo dire «la maestra», ma non possiamo fare il femminile di «fabbro», né possiamo far finta che «la pigrizia» non esista. È naturale che questa «ipocrisia verbale» abbia provocato, specie nei Paesi latini, a cui non è congeniale, la reazione eguale e contraria del turpiloquio. Come ha scritto Massimo Arcangeli, «quasi trent’anni dopo la nascita del pc comincia, non meno integralista e sicura di sé, l’epoca della Nuova Sfacciataggine, che dice pane al pane, che non usa cerimonie».

Se il «politicamente corretto» costruisce una lingua di plastica, qui il modello è la volgarità suburbana. Una proposta: se invece di «stronzo» o «diversamente intelligente» cominciassimo a dire «imbecille»? Non sarebbe la cosa più naturale?

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