Il discorso della Cancelliera tedesca Angela Merkel sul modello multiculturale fallito, non è una resa, ma una sfida. Una bella sfida nella forma non di uno squillo di tromba, ma di un pacato richiamo al buon senso. Di certo la Cancelliera, per come la si conosce, liberale e moderata, non intende con la sua uscita tentare di chiudere le porte della Germania o dell'Europa; né sarebbe possibile bloccare d'un tratto l'immigrazione e più in generale quei processi di globalizzazione che sono parte del mondo attuale, del nostro mondo. Ma proprio la sua faccia tondeggiante eppure dura, i suoi modi di usuale cortesia che ci propongono la questione in maniera urbana, il suo mettere avanti la preoccupazione dei giovani da qualificare per un degno lavoro, i nostri ragazzi che non sanno che fare di se stessi; il parlare del disagio biblico della babele di un mondo in cui i tuoi vicini di casa non hanno idea della tua lingua; il disegnare ghetti alieni e totalmente diversi l'uno dall'altro, nazionalità per nazionalità, dove quasi non ci si pone affatto il problema di integrarsi, ma solo quello della sopravvivenza e della chiusa conservazione di se stessi, identificata con quella della propria cultura... tutto questo riesce a focalizzare il problema meglio di tante analisi sociologiche. E ci dice che certe culture molto spesso non hanno nessuna intenzione di mescolarsi con la nostra, qualsiasi sia il nostro atteggiamento, con la migliore buona volontà. Parigi è ormai una città dove più di 200mila persone vivono in famiglie dove si pratica la poligamia, in Italia trentamila donne sono stat e sottoposte a mutilazione sessuale, i tribunali islamici, una novantina solo a Londra, comminano pene impensabili. Proprio lei, l'Angela, ha qualche speranza d i proporre il problem a proprio perché non usa i toni di Gert Wilder, che pure h a buone ragioni m a che viene respinto dall'opinion e pubblica politically correct. La cancelliera può porre il problema come forse l'avrebbe posto Alexis de Tocqueville: nel 1830 come si sa egli propose al nostro mondo una descrizione acuta e stupita di chi vede per la prima volta in America ruotare all'impazzata un universo molto veloce fatto del mosaico policromo i n cui schizzano tutte intorno le tessere che stanno creando una società liberale e democratica. L'avidità, l a capacità, l a volontà: ma anche lo spirito comune. Torme di uomini che venivano da tanto lontano alla costa della Nuova Inghilterra, dice Tocqueville, presto forgiarono u n linguaggio uniforme sulla base della comune lingua inglese, tutti volevano far valere l'educazione, il fatto di appartenere alle classi agiate della loro madrepatria, tutti pur nel bisogno, sulla terra vasta e selvaggia, affrontavano la novità con la convinzione di farlo anche i n nome d i un'idea, basilarmente quella dei pellegrini puritani. «La passione inquieta e ardente», «L'avidità verso l'immensa preda» non dimenticò di far fiorire le associazioni civili, i giornali, le poste. Tutto questo insieme di circostanze puntava in una direzione sola: l'invenzione della democrazia. È qui, e non tanto nel fattore linguistico oggi più facilmente affrontabile con i computer e i mezzi di comunicazione di massa, che ha completamente fallito il nostro modo di guardare all'immigrazione. Ci siamo innamorati dei colori e dei costumi, abbiamo pensato che l'intrinseca bellezza di vedere un bambino scuro e uno chiaro insieme magari sorridenti di fronte all'illusoria macchina fotografica degli United Colors of Benetton rispecchiasse un'aspirazione comune, quella della vita in comune non ovunque, ma da noi: nella democrazia. È questo ultimo termine che è spesso distante e percepito come ostile dalle culture che ospitiamo. Noi siamo forti: la cultura democratica nostrana ha divorato, per esempio, la nostra cultura contadina degli anni ’60, con quel «genocidio culturale» di cui parlava Pasolini. Ma si trattava della stessa cultura bianca, la stessa mamma, l o stesso cibo, gli stessi costumi sessuali, con piccole trasformazioni apparenti. Invece, nella globalizzazione che avviene nella odierna società democratica ci sono dei corpi i cui odori, sapori, colori sono totalmente diversi, distanti, e soprattutto non gli piacciamo affatto: della democrazia non ne vogliono proprio sentir parlare, non gli interessa, non l'hanno mai vista a casa loro, non si capisce perché dovrebbero conformarsi alle sue regole di cui la maggiore è quella della libertà individuale. Proprio il contrario di quello che indica per esempio l'Islam com e bene supremo. Altre sono le loro regole, non quelle della democrazia. In Germania, terra della Merkel, un'avvocatessa di Berlino che è stata pestata con la sua cliente musulmana che voleva divorziare, ha subito un'aggressione anche nel metrò e ha dovuto chiudere lo studio. Sempre in Germania, l' Idomeneo di Mozart è stato cancellato per minacce islamiste; il direttore del quotidiano Die Welt Roger Koppel ha fermato per pura fortuna la mano d i u n giovane musulmano che stava per pugnalarlo nel suo ufficio. I n Germania, in Inghilterra, in Francia non si riescono più a rintracciare le «ragazze scomparse», divenute schiave in seguito a matrimoni combinati. A Stoccolm a è d i gran moda, h a scritto Giulio Meotti, una t-shirt che i ragazzi musulmani indossano: porta la scritta «2030 poi prendiamo il controllo». Sono solo episodi. È l a democrazia, stupido. Quando siamo di fronte a una cultura come quella islamica, ci sono delle forme di irriducibilità che investono questioni legali e morali che hanno sfumature diverse. Per noi «immigrazione » è una parola sacra, infarcita d i sensi d i colpa, d i generosità, d i religione e di memoria liberal o di sinistra.
Ma anche democrazia è una parola sacra, prima ancora di vivibilità, che pure la gente che vive nei quartieri adiacenti quelli di immigrazione legittimamente pone. Il nodo è tutto là. Forse la Merkel, da democratica tedesca, europeista, borghese, complessata e timida come sa esserlo ogni tedesco colto, c e l'ha fatta a sollevare la questione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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