Indagati l’ex dg Vigni e tre sindaci: un prestito mascherato da capitale

Una banca troppo ambiziosa. Convinta di poter scalare l’olimpo del credito italiano, ingoiando un boccone troppo grande: Antonveneta. Pensava in grande il Monte dei Paschi nel 2007 e pensava in grande la città che da sempre gli fa cornice, nell’incanto delle torri medioevali.

Ora però si scopre che il Monte andò troppo in là, s’indebitò e cercò con una serie di manovre spericolate di assorbire l’enorme spesa sostenuta, oltre nove miliardi di euro, per portare casa l’ambitissima preda. Secondo la procura, una parte dell’aumento di capitale (il bond «Fresh» da un miliardo di euro), che accompagnò l’acquisizione, è in realtà un prestito che doveva essere rimborsato, fino all’ultimo centesimo e con tanto di interessi.

Non solo: sempre a sentire i pubblici ministeri, la dirigenza dell’epoca del Monte dei Paschi non comunicò agli organi competenti, ovvero alla Banca d’Italia e alla Consob, quel che stava accadendo dietro le quinte. Si potrebbe dire che il varo, sontuoso, della terza potenza bancaria italiana si svolse senza la necessaria trasparenza, anche se la città, allora amministrata da Maurizio Cenni, batteva le mani e sognava una grandeur in salsa toscana. E ancora, proprio l’eccessivo indebitamento, una sorta di peccato originale, sarebbe stato all’origine della strana guerra sul valore delle azioni del Monte, andata in scena fino a poche settimane fa.

Per ora quattro persone sono state iscritte nel registro degli indagati e tutte per ostacolo all’autorità di vigilanza; si tratta dell'ex direttore generale del Mps Antonio Vigni e dei tre componenti del collegio sindacale dell'epoca: Tommaso Di Tanno, Leonardo Pizzichi e Pietro Fabretti. Il secondo filone, per aggiotaggio, è invece al momento contro ignoti.

Tutto comincia dunque con l’acquisto di Antonveneta pagata, e anche questo non si capisce bene perché, uno sproposito. Il Banco Santander incassa 9,3miliardi di euro. La banca e la Fondazione, che ne è un po’ la cabina di regia, trovano otto miliardi. Manca l’ultimo e qui viene chiamata in causa Jp Morgan, con un aumento di capitale. In realtà, sempre secondo gli investigatori che l’altro ieri e ieri hanno effettuato decine di perquisizioni a Siena e in altre cinque città, l’aumento di capitale non c’è (almeno per una tranche da 490 milioni su cui sono in corso le verifiche) e al suo posto c’è un prestito alla Fondazione. Jp Morgan, per la procura, si appoggia ad altri tre istituti di credito: Leonardo, Credit Suisse, Mediobanca che sottoscrivono obbligazioni convertibili in azioni di diritto lussemburghese. Si tratterebbe, a detta dei magistrati, solo di uno schermo, perché, spulciando le carte, salta fuori che in realtà le tre banche avrebbero siglato accordi diretti con la Fondazione Monte dei Paschi di Siena: questi accordi, secondo l’interpretazione delle Fiamme gialle, sarebbero stati imperniati su degli swap, ovvero su sofisticati derivati di tipo asiatico. E dalla lettura dei contratti si intuisce che alla fine la Fondazione senese rimborserà al terzetto i 490 milioni, più gli interessi. Insomma, l’aumento (o almeno metà di esso) sarebbe fittizio. E il Monte ha eliminato, nelle comunicazioni alla Banca d’Italia a e alla Consob, il capitolo swap. Silenzio.

Successivamente irrompe la crisi e l’Eba, l’autorità bancaria europea, chiede alle banche di rafforzare il proprio patrimonio. Impresa difficilissima per Siena che si trascina sempre dietro il peccato originale per cui si è svenata. Ecco allora l’idea di un prestito da 600 milioni di euro, varato da un pool di istituti di credito. La Fondazione ha già raschiato il fondo del barile e, per seguire l’aumento, può solo offrire in pegno le azioni della banca. Siamo all’ultima anomalia di una storia anomala. Vengono previste ulteriori clausole finanziarie fra il pool dei creditori e il debitore.

Nel caso in cui il valore delle azioni del Monte scivoli sotto una certa soglia, Siena pagherà altro cash. Ci sono giornate di borsa davvero strane in cui sembra si sia combattuta una guerra. Il titolo schizza in alto, poi cade a precipizio. Ma è un’ipotesi tutta da verificare.

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