da Milano
C'è stata una «prima assoluta» alla Scala: linguaggio impegnativo, tema arduo; ma il pubblico ha riempito il teatro ed ha applaudito fortemente. La storia è tratta da un romanzo di Kemal, Teneke. È la disfatta delle intenzioni oneste del giovane capo d'un paese che invano si oppone ai potenti coltivatori di riso per evitarne il micidiale allagamento; essi corrompono cinicamente il paese contro la legge e contro la stessa salute. Teneke sono i tamburi di latta con cui i momentanei vincitori lo scherniscono. Kemal è il grande narratore turco, acclamato in proscenio con gli artisti. È un ottantenne fascinoso, imprevedibile, capace di rimproverare sorridendo i colti italiani che lo festeggiano d'aver dimenticato fra gli scrittori importanti Zavattini. Ed è capace di raccontare una storia come quella rappresentata senza rinunciare a guardarsi attorno con leggerezza, alla natura, e con i suoni avvolgenti della parola.
Fabio Vacchi, che ne ha fatto un'impegnativa opera, ha scelto invece l'immersione nella tragedia. Ne è venuta una specie di struggente e scura parabola morale e storica, dove i personaggi si caricano di coscienza e di responsabilità e dove il coro diventa quasi il protagonista. Questa tensione e l'intenzione ferma di comunicarla a chi vuole partecipare ascoltando lo portano a tentare un decisivo passo avanti nella sua creatività: e così sono presenti ancora le qualità che hanno lo affermato nell'avanguardia di ieri, con le durezze sonore, le associazioni di pensieri musicali sentite necessarie anche a scapito della sintesi, e quelle che l'hanno imposto come capace di dare una tinta sua ai più svariati linguaggi eruditi e popolari e mescolarli; ma sul fare dell'opera Vacchi si affaccia a una verità nuova buttandosi all'estremo delle possibilità espressive: allora il protagonista può imbizzarrirsi quasi in lotta con un violoncello per chiedersi ragione della propria solitudine e finire per evocare la sua donna amata e lontana in un duetto arrampicato in cima al pentagramma d'intensità lacerante e luminosa, indimenticabile; e il coro può unire oppressione e debolezza, linearità e intrico, in una nostalgia indicibile.
Roberto Abbado si pone come custode di questa partitura con sicura bravura; i cantanti vi si dedicano generosamente. Sono tutti efficienti: il tenore protagonista Steve Davislim, la tonante Anna Smirnova e Andra Concetti, con evidenza; ma s'impone con nitida potenza Nicola Ulivieri, e Rachel Harnisch, l'amore del povero protagonista, riesce a dare nelle impervie altezze una varietà di colori e di sentimenti da brivido. Tutti gli interpreti sono convinti di poter essere credibili, di rappresentare una verità: i loro movimenti formano il ritratto di gente di un paese turco antico, che ha una sua vita rustica autentica, e i quadri che via via si compongono sono pittoreschi e credibili insieme. Qui sta la differenza fra un regista abile, come ce ne sono tanti, e un Ermanno Olmi, che fa crescere la fede nel teatro in chi interpreta e in chi assiste.
La parola è un po' banalizzata nel libretto di Marcoaldi; ma l'immagine è poi garantita dalla straordinarietà della scena di Arnaldo Pomodoro. Tutti sappiamo che come scultore è l'uomo che ha mostrato il travaglio drammatico che si cela sotto la superficie, e la speranza di barbagli di luce che ne rendono la bellezza dolorosa ma non opprimente.
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