Inglese «lingua franca» di un modello in crisi

Robi Ronza

La reazione di Chirac al recente Consiglio Europeo di fronte al presidente francese dell’Unione degli industriali europei che aveva preso la parola in inglese si può discutere, ma senza dubbio nell’Unione Europea il problema delle lingue è tanto grave quanto trascurato. Come venerdì scorso il Giornale ha riferito, di fronte al presidente dell’euro-Confindustria, Ernest-Antoine Seillière, che aveva annunciato di parlare in inglese «perché questa è la lingua delle imprese», Chirac è uscito dalla sala rientrandovi solo al termine del suo intervento. In effetti, a causa dei danni culturali che porta con sé, l’uso sproporzionato dell’inglese in sede europea va ritenuto a ragione insopportabile.
In un insieme come l’Ue - che diversamente dagli Usa non presenta l'uniformità linguistica tipica dei Paesi nati come colonie europee di popolamento - la questione delle lingue è di importanza determinante. All’ombra di un plurilinguismo affermato in teoria ma trascurato nella pratica, in sede europea si è passati da un prevaricare del francese a un prevaricare dell’inglese. L’ideologia giustificativa di tale politica è ancora quella illuministica del monolinguismo, della «lingua franca» intesa a torto come una forma di razionalizzazione. In realtà, sin dalla prima «lingua franca» che si ricordi, quella che nacque nel Levante all’epoca delle Crociate, gli idiomi che assumono il ruolo di strumento generale di comunicazione semplice perciò stesso non servono alla comunicazione più complessa e creativa. Essendo per definizione, come accade oggi all’inglese, parlati in maggioranza da persone per le quali non sono lingua materna, finiscono per ridursi a un insieme di frasi fisse e concetti limitati: qualcosa che non favorisce affatto lo sviluppo del pensiero. Se perciò in sede europea si lascia dilagare una «lingua franca» quale strumento di comunicazione generale il risultato è un tendenziale blocco dello sviluppo del pensiero accompagnato dal formarsi di una casta di «scribi» che traggono potere dalla conoscenza del gergo che la caratterizza (come oggi è già evidente dalla lettura di qualsiasi odierno bando o regolamento dell’Ue).
È chiaro che, considerato il numero delle lingue che si parlano in Europa, la questione è molto complessa. Nondimeno l’attuale tendenza alla trasformazione dell’inglese in lingua unica dell’Unione va contrastata con forza. Una formula possibile sarebbe quella di esigere: 1. un plurilinguismo totale nei materiali scritti, stabilendo che nessun documento scritto possa circolare prima di venire reso disponibile in tutte le lingue dell’Ue; 2. l’obbligo degli uffici europei di trattare ogni pratica nella lingua ufficiale nello Stato o territorio del dante causa; 3.

l’uso comunque in ogni sede dibattimentale, anche al di fuori delle assemblee parlamentari, di tre-quattro lingue di lavoro appartenenti a gruppi linguistici diversi in modo tra l’altro di premiare la cosiddetta «competenza passiva», ossia la comprensione di una lingua che pure non si è in grado di parlare: qualcosa che è all’interno di ciascun gruppo linguistico è abbastanza facile. Capire il francese anche se senza saperlo parlare non è difficile per un italiano, e così capire il polacco per un ceco e così via.

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