Sullo scranno ci sarà il giudice Italo Ghitti, il duro di «Mani Pulite» (nome in codice, nel gergo dei cronisti dellepoca, «Nano Ghiacciato»). Sul banco degli imputati, il personaggio che più di tutti in questi anni si è dato da fare per dimostrare che davvero, nellepoca della televisione, ognuno ha diritto al suo quarto dora di celebrità: soprattutto se la va a cercare con metodo, attendendo al varco cronisti e telecamere, sfidando il freddo, i calci, il ridicolo, le querele. Ovvero Gabriele Paolini, autoproclamatosi «il Disturbatore»: il tizio che, ama fare irruzione nelle inquadrature e nelle case degli italiani sventolando a volte un preservativo, a volte un cartelli, a volte uno slogan.
Dopodomani, a Monza, per Paolini arriverà la sentenza che rischia di trasformare il suo passatempo in un delitto. Nel mirino della giustizia non cè il fatto in sè di fare irruzione nelle dirette tv: per il quale Paolini è stato accusato di interruzione di pubblico servizio, venendo però sempre assolto. A rendere difficile la posizione processuale del giovanotto sono invece le frasi che poi, quando si rende conto di essere riuscito a entrare nel raggio dazione della telecamera, Paolini urla con tutto il fiato che ha in gola. E che a volte, come in questo caso, superano decisamente il limite del diritto di critica.
Era il 21 maggio 2008 quando il giornalista del Tg5 Giuseppe Gandolfo, che si trovava davanti al palazzo della Corte di Cassazione, a Roma, si vide piombare accanto Paolini. Che, chissà perché, insultò pesantemente lallora direttore del telegiornale di Mediaset: «Mentana è uno str....!», urlò Paolini. Enrico Mentana, come si può immaginare, la prese male e sporse querela. Poiché il Tg5 va in onda da Cologno Monzese, la competenza è stata assegnata al tribunale di Monza. E lì, dopodomani, si deciderà la sorte del Disturbatore.
Non è la prima volta che Paolini finisce sotto processo. A costargli lincriminazione erano state in passato alcune sue incursioni in cui se la prendeva con la Chiesa gridando «Il Papa è gay». Rinviato a giudizio, si era giustificato sostenendo di riferirsi non a Benedetto XVI a ma a Bonifacio IV, un pontefice del settimo secolo, e che comunque gli interventi erano concordati con la Rai che per questo gli avrebbe versato anche somme rilevanti. Ma era stato ugualmente condannato a cinque mesi di carcere per avere «offeso una confessione religiosa».
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