«Integrare gli islamici ora è utopia»

«Bisognerebbe bombardare l’Iran e i Paesi fondamentalisti con dvd porno e preservativi. È solo con le rivoluzioni di culture e costumi, in definitiva con l’acquisizione delle libertà nel patrimonio sociale, che le pretese di assolutezza del proprio credo si attenuano. E l’oligarchia religiosa termina. Anche la fine dell’Unione Sovietica è passata per i Beatles, il jazz, mica tramite martiri collettivi per la libertà di stampa». Il filosofo Gianni Vattimo, voce critica della sinistra, cerca le ragioni dei risultati del sondaggio del Giornale, di quel 67,9% di italiani che ritengono gli islamici poco desiderosi di integrarsi.
Condivide l’idea che questa comunità sia più chiusa di altre e che magari taluni antepongano la propria religione al rispetto delle nostre leggi?
«Sì, gli islamici in Italia presentano un’identità, delle origini più resistenti rispetto ad altri gruppi, con radici particolarmente forti. È un gruppo etnico e culturale molto auto-referenziale, con un rigore religioso assai rigido, incomprensibile in Europa, terra di dubbi e scetticismo».
Perché non si vogliono integrare?
«Negli Stati Uniti Cosa nostra ha marchiato gli italiani per decenni agli inizi del secolo scorso. Attraversavano l’oceano poveri, privi di istruzione, senza parlare inglese. Una volta arrivati lì si sono aggregati tra loro, costituendo una società parallela. Oggi quelle stesse ragioni economiche, di sentirsi diversi e di fare gruppo a sé le ritroviamo negli immigrati musulmani. Forse con un'immigrazione meno selvaggia, con regole condivise, l’integrazione non sarebbe solo un’utopia...».
Lei crede davvero che sia un sogno irrealizzabile?
«Nel Sahara occidentale ho visitato dei campi profughi con migliaia di persone che non avevano mai visto una città, una strada asfaltata. Aspettavano che qualcuno li portasse in Europa. Per molta di questa gente l’idea di integrazione rimane un’utopia e un desiderio. Solo che quando arrivano da noi finiscono in carcere».
Come mai?
«Il conflitto sociale con loro in atto è un elemento prevalente e più ampio di quello culturale denunciato dai più. Non è facile sfamare gli affamati, non far aumentare i muri che dividono...».
Pensa che si stia andando verso una rottura?
«Con la rottura si andrebbe verso una disintegrazione. No, credo che l’unica strada percorribile sia quella del confronto. Farli votare alle amministrative, ad esempio, è un segno di integrazione. Senza però preferirli agli italiani come talvolta avviene... Purtroppo siamo guidati da una classe politica ridotta ormai a casta autonoma che si autoriproduce e che non coglie le necessità reali di questo Paese. Con uno scollamento con il Paese reale ogni giorno più incolmabile».
Lei sostiene l’integrazione a ogni costo, anche se si moltiplicano le divisioni, se si ripetono gli episodi di terrorismo senza unanimi condanne? Se i diritti delle donne vengono negati? Se diversità come l’infibulazione segnano le distanze culturali?
«Certo che gli immigrati non condannano il terrorismo. È già tanto che non vi partecipino! Si sentono sfruttati, maltrattati, sottopagati. Vedono un mondo che luccica senza né appartenervi né comprenderlo. Tuttavia, lo ripeto, dubito che il fattore religioso-culturale sia determinante. Credo che quello sociale, della miseria e arretratezza come auto-isolamento, spinga a chiusura e violenza. Nella rivolta delle banlieue di Parigi mica erano i broker algerini dei quartieri alla moda a dar fuoco alle auto!».
E i diritti civili?
«Nel nostro Paese, fortunatamente, le leggi tutelano l’integrità fisica delle persone. Se qualcuno da noi infibula lo mettiamo in galera.

Bisogna far rispettare i nostri codici, con rigore, ma prendere le cose di punta significa fare la guerra di religione. Che, alla fine, ci vedrebbe perdenti. Da sconfitti. O da vincitori».
Gianluigi Nuzzi
gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it

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