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Bruti è assediato ma resiste: "Non me ne vado da Milano"

Il procuratore capo chiede la riconferma alla guida dell'ufficio e prepara la relazione. Nessun passo indietro dopo la censura

Bruti è assediato ma resiste: "Non me ne vado da Milano"

Non farà un passo indietro, non si ritirerà come Ratzinger a fare il procuratore emerito. In queste ore difficili, chiuso nel grande ufficio al quarto piano del palazzo di giustizia milanese, Edmondo Bruti Liberati sta lavorando a limare un documento che dice tutto sulla sua determinazione di restare al suo posto, la prova concreta di quel «non me ne vado» con cui, parlando con chi lo conosce meglio, ha reagito anche alle ultime notizie in arrivo dal Consiglio superiore della magistratura. Anche se il Csm si prepara ad affrontare la prossima settimana la proposta di procedimento disciplinare contro di lui avanzata dalla commissione che ha scavato sui veleni milanesi, il procuratore capo continua a lavorare alla relazione con cui il mese prossimo presenterà i risultati dei suoi quattro anni di guida della Procura milanese. Una difesa orgogliosa del lavoro svolto e dei risultati raggiunti. Per questo Bruti ribadirà la sua richiesta di restare al suo posto per altri quattro anni. Con buona pace delle accuse lanciate contro di lui da Alfredo Robledo, il suo vice che lo ha accusato di essersi creato un cerchio magico di pm fidati cui passare le carte delle inchieste politicamente più delicate. Accusa che, anche se con toni meno polemici, è stata confermata da più di uno dei pm interrogati dal Csm nei tre mesi di indagine interna.

La verità è che in questo momento Bruti Liberati è un uomo solo. Accanto a lui - fisicamente, nelle passeggiate in corridoio, nei pranzi all'ombra dei chiostri di via San Barnaba - ci sono spesso Francesco Greco e Ilda Boccassini, i due procuratori aggiunti che Robledo indica come i suoi «fedelissimi», quelli privilegiati nell'assegnazione dei fascicoli. Ma anche Bruti sa che, se alla fine questa vicenda dovesse travolgerlo, proprio Greco e la Boccassini sarebbero tra i candidati più autorevoli a prendere il suo posto. E dietro, in qualche modo, si coglie la differenza di percorso tra Bruti e i suoi alleati di oggi. Nei lunghi anni di Mani Pulite e delle inchieste sul Cavaliere, Bruti era lontano dalla trincea milanese: al Csm, all'associazione magistrati, nei vertici di Magistratura democratica. Il rapporto dei pm con lui è, tanto per fare un esempio, quello che gli ufficiali di prima linea hanno con i colleghi dello Stato maggiore: autorevoli, ma sempre a distanza di sicurezza dalle bombe. E questo, in qualche modo, ha pesato quando Bruti si è ritrovato a fare il capo di magistrati che erano di fatto molto più esperti di lui sulla conduzione delle inchieste, e che non hanno mancato di farglielo pesare.
E pesa sul procuratore soprattutto la genesi della sua candidatura alla guida della procura milanese nel 2009, quando anche il centrodestra si convinse a votare per lui, nonostante la sua biografia di toga rossa a tutti gli effetti, sull'onda della convinzione che Bruti - come si diceva in Csm - sarebbe stato un procuratore «a cui si può telefonare», un magistrato abituato a confrontarsi con i riti e le esigenze della politica, lontano dalle rigidità mentali del procuratore uscente Manlio Minale, e da quelle similari del suo principale rivale per la successione, Ferdinando Pomarici, oggi divenuto uno dei suoi accusatori. Alla fine vinse Bruti Liberati, forte anche della benedizione di Giorgio Napolitano, che fece sentire il suo peso sulla decisione del Csm. Ma il Quirinale oggi non ha potuto evitare che il Csm tirasse le fila del caso milanese nell'unico modo possibile.

Il voto a suo favore del centrodestra ha costituito un peccato originario che la sinistra radicale e il Fatto quotidiano non hanno mai perdonato a Bruti, accusato di essere stato un procuratore troppo attento alla politica. E Bruti lo è stato davvero, nel bene quanto nel male: quando si impadronì del fascicolo su Alessandro Sallusti lo fece per impedire che il direttore del Giornale (e anche qui Bruti era in piena sintonia con Napolitano) finisse in galera; e se ritardò le indagini su San Raffaele e sul presidente della Provincia Guido Podestá fu per evitare conseguenze traumatiche delle inchieste sui tentativi di salvataggio dell'ospedale e sulle elezioni imminenti. Ma buon senso e opportunità politica non sono scritti nel codice di procedura penale, dicono i suoi oppositori.

La storia della Procura milanese non è priva di macchie, e la contiguità con il potere politico al tempo di procuratori come Carmelo Spagnuolo o Mauro Gresti era considerata assai meno blasfema di oggi. Ma è roba di mezzo secolo fa. Dalla gestione di Francesco Saverio Borrelli in poi, la procura milanese ha costruito la sua identità collettiva anche su un sentimento di superiorità morale rispetto al palazzo della politica. È questo il collante che ha cementato magistrati diversi per storia, censo, cultura. Silvio Berlusconi ha incarnato meglio di chiunque il nemico ideale, ma in fondo era la politica in sé a venire considerata quasi sterco del diavolo dai pm cresciuti nella cultura di Mani pulite. In fondo, oggi Bruti paga anche la sua estraneità a questa cultura: che lo ha reso debole, e in qualche modo ostaggio dei colleghi che oggi si preparano a prendere il suo posto. Ma lui, chiuso nella grande stanza che fu di Borrelli, conferma a chi lo incontra in questi giorni di non alcuna intenzione di mollare. Se anche il ministro o il procuratore generale della Cassazione scegliessero di metterlo sotto accusa, forse le cose cambierebbero: anche perché sarebbe il segnale finale che neanche Napolitano può più spendersi per lui.

Ma fino a quel momento, dice, il procuratore della Repubblica è lui.

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