Le stesse cose ritornano. Questa ascesa di Monti, con il credito di credibilità che accompagna l'antico professore, i cui meriti politici sembrano piuttosto nella rispettabilità formale che nelle capacità operative, ha una singolare affinità con la straordinaria fortuna che toccò a Mario Segni, all'indomani di Tangentopoli.
Figure di secondo piano, per lunghi anni, i due assumono improvvisamente il ruolo di salvatori della patria e di uomini della provvidenza, con la benedizione delle gerarchie ecclesiastiche. Hanno anche in comune il ripudio dell'uomo che sarebbe stato pronto in entrambi i casi a sacrificarsi per loro, rinunciando a candidarsi in prima persona, se i due avessero avuto l'umiltà di accettare il suo dono e il suo omaggio. Nel 1993 Berlusconi chiamò Segni pensando di dare in dote a lui il movimento politico che stava organizzando. Ma Segni (come poco dopo il riluttante e patinato Martinazzoli) non accettò.
Non c'è chi non veda l'affinità con la situazione odierna. Per mesi Berlusconi coltiva il progetto di unire i «moderati», facendo il richiesto passo indietro per saldare la coalizione, con Monti candidato premier. Il Professore nicchia, non risponde, elude; rifiuta, alla fine, riaffermandosi tecnico a tempo determinato, non definendo per altro il punto d'arrivo del suo mandato se non nella scadenza naturale della legislatura. Berlusconi è credibile perché lo ha lealmente appoggiato in una vasta e anomala maggioranza insieme all'Udc e al Pd. E resta acquattato e in letargo per un anno. Poi sbotta per una iniqua condanna e manifesta tutta la sua insofferenza per le inutili primarie. E perché farle, dunque, se l'unico candidato agognato è il Monti? Ma Monti recalcitra, si sottrae, in concerto con Casini. È tentato, ma non vuole Berlusconi, proprio come Segni. Berlusconi fa un passo avanti, ma gli calpestano il piede; va a Bruxelles, alla riunione del Ppe e si trova, nel campo suo, chiamato dal popolare europeo Maertens, Monti, che, in quanto tecnico, non avrebbe titolo. Ma Berlusconi coglie la palla al balzo, e ripropone con convinzione ed energia la candidatura di Monti: è lui il riferimento ideale dell'area moderata e popolare. Berlusconi torna in Italia e aspetta. L'agognato non risponde. Ma non per ritrosia, o per manifestare la sua conclamata estraneità alla politica e il disagio di essere riferimento di solo due delle tre forze che lo hanno sostenuto al governo. No, ma perché, con smisurata superbia, pensa di attrarre a un centro ideale, che non c'è, tutti i buoni, i giusti, gli onesti, i conservatori e i riformisti, i moderati e i disturbati dalla politica, ovviamente senza Berlusconi e i suoi elettori «populisti».
E, esattamente come Segni che, peraltro, non doveva niente a Berlusconi e non aveva un passato comune, volta le spalle al reprobo e fonda il suo partito, anzi guida un nuovo «patto» tra politica e società civile. Cose viste, propositi mille volte espressi. Con l'ingenuità di trascurare che la società «incivile» è maggioritaria, faziosa, incazzata, senza i privilegi, gli aerei, gli elicotteri, le prebende dei prediletti amici di Monti, che viaggiano a nostre spese.
Cosa accadde dell'ammiratissimo Segni nel 1994 (e cosa accadrà di Monti nel 2013)? Che fu schiacciato, travolto, cancellato. L'Italia si trovò bipolare, divisa tra destra e sinistra. Segni pensò, come Monti, di poter fare a meno di Berlusconi, rappresentando un'alternativa alla sinistra. Fu subito abbandonato da Tremonti, esponente ballerino del «patto», che passò con Berlusconi e fu ministro. È, in fondo, la riserva segreta di Monti che non pensa giammai di sparire e tanto meno (come Segni) di perdere. Ma, semmai, a parti invertite, di dare, dopo le elezioni, appoggio a Bersani per neutralizzare Vendola, non sprecando il proprio esito elettorale, quale che sia.
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