Prima Maria Novella Oppo, giornalista dell'Unità, poi Francesco Merlo, editorialista della Repubblica (già del Corriere della Sera). Entrambi messi all'indice da Beppe Grillo che li ha «sgridati» a modo suo sul proprio blog per aver osato criticare il Movimento 5 stelle. Era fatale, le pubbliche reprimende del guru genovese hanno dato la stura sulla Rete a una serie infinita d'insulti diretti ai due reprobi, lanciati non soltanto da inferociti grillini, suppongo, ma anche da tanta gente mansueta che però, quando picchietta sulla tastiera dell'iPad o roba simile, si trasforma in orda barbarica e sfoga le proprie frustrazioni seppellendo d'improperi le persone di qualche fama e illudendosi, così, di porsi al loro livello.
Le parolacce in voga sui social network riflettono la mentalità (la cultura è un'altra cosa) di chi le scrive: «testa di cazzo» è sempre in vetta alla hit parade; seguono «pezzo di merda», «leccaculo» e «servo». Vi risparmio le altre: le immaginerete. Non so se Maria Novella Oppo si sia offesa per essere stata coperta di contumelie e condannata da Grillo a diventare bersaglio dei diffamatori più o meno ludici. Penso di sì. Infatti non è mai piacevole parare con la faccia gli sputi, per quanto metaforici.
So altresì che il linciaggio mediatico non impressiona e non disturba più di tanto se ne è vittima un amico o un conoscente, al quale - a titolo consolatorio - dici convinto: suvvia, non te la prendere, cento o mille buzzurri, per lo più anonimi, non possono scalfire la tua reputazione. Ma se tocca a te scoprire di essere inviso a una moltitudine di cafoni, la faccenda cambia aspetto: inutile fingere, ti senti maltrattato ingiustamente.
Vorrei però dire alla collega dell'Unità di non soffrire esageratamente. Può riuscirci. Basta che rifletta: quante volte lei, magari senza rendersene conto, ha vergato articoli che hanno piagato il cuore altrui? Nel nostro mestiere capita di sbagliare o di eccedere nelle critiche. Non dobbiamo pertanto lagnarci troppo se poi alcuni usano contro di noi le stesse armi, sia pure più sgangherate, che noi abbiamo usato contro di loro o contro i loro amici. C'est la vie.
Per Francesco Merlo vale il medesimo discorso. Ho letto ieri il suo amaro articolo: ho capito che le pugnalate da lui ricevute stentano a rimarginarsi. La prosa, meno brillante del consueto, è una specie di cartella clinica dello stato d'animo dell'autore. A nulla sono serviti gli sforzi per mascherare il dolore che viene comunque fuori da ogni frase.
Conobbi Francesco a metà degli anni Ottanta, quando esordì in redazione al Corriere. Era timido e garbato. Stava seduto al mitico tavolone albertiniano, una copia di quello del Times: ripiano inclinato e lampade verdi che illuminavano le Olivetti. Come tutti, anche lui per alcuni anni sgobbò (si fa per dire) a raddrizzare i pezzi dei redattori con diritto di firma, regolarmente invidiati dai passacarte anonimi.
Merlo non tradiva malumori. Semplicemente non parlava. Per mesi non udii la sua voce. Biondo, perbenino, educato, la sua presenza era inavvertibile. Un giorno lo mandarono, causa assenza degli inviati di ruolo, su un servizio. L'indomani lessi il reportage e lo trovai eccellente, per quanto potesse valere il mio giudizio: molto curato, bene impostato, completo, addirittura divertente. Pensai: questo qui, se sarà messo in condizione di farsi notare, andrà lontano.
L'uomo mi aveva talmente incuriosito da indurmi a interrogarlo. Parlava volentieri, con un lieve accento catanese; era un buon conversatore, acuto e arguto. Anni più tardi, quando ormai me n'ero andato da via Solferino, vidi sulla prima pagina del Corriere - direttore Paolo Mieli - un suo fondo. Lo bevvi avidamente e sorrisi soddisfatto. Avevo visto giusto: era bravo. Non so perché, a un certo punto Merlo passò alla Repubblica, e constatai che i suoi articoli erano cambiati: sempre ben scritti, sempre puntuali, rivelavano però una punta di acidità che non sospettavo potesse fuoriuscire dalla sua penna aggraziata.
Perché dico questo? Sono persuaso che Francesco, forse inconsapevolmente, nutra un rancore per i personaggi ai quali dedica i suoi articoli. E che ciò gli abbia procurato qualche antipatia, ampiamente ricambiata, come succede in casi simili. Anche lui, quanto la Oppo, si innamora delle parole e se ne lascia trascinare. Sono le parole a comandare sulle loro idee e non viceversa, almeno in alcune circostanze. Niente di grave. Siamo tutti faziosi e tutti schiavi di pregiudizi. Il problema è che, seguendo più la convenienza che la logica, pieghiamo le nostre frasi all'esigenza intima di essere coerenti con la linea del giornale piuttosto che con la nostra coscienza della realtà.
Merlo, come tutti quelli che badano all'estetica scambiandola talvolta per etica, ha attirato su di sé molte antipatie. D'altronde non si può piacere a tutti. Ecco il motivo per cui lo hanno oltraggiato. Se ne faccia una ragione. Dissimuli la sua rabbia.
Sappia che spesso i fischi sono più meritati degli applausi. L'unico modo per non udirli è infilarsi i tappi nelle orecchie. In un momento di sbandamento sociale e politico, conviene meditare: siamo all'altezza delle nostre ambizioni?
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