Non sembra più lo stesso, Attilio Befera, il Torquemada del fisco nostrano. Dopo otto anni di presidenza di Equitalia (è lì dal 2006) e sei da direttore dell'Agenzia delle entrate (2008), qualcosa gli si è incrinato nell'animo.
Simbolo dell'implacabilità erariale, per gli eccessi suoi e dei 35mila civili al suo comando - senza contare il braccio armato della Gdf -, Attilio ha ultimamente tirato il freno. Ai tempi d'oro della sua imperiosità, pareva l'avesse personalmente con noi, considerati in massa potenziali evasori. Diceva: «È necessario incutere un sano timore», «Non avrete scampo, abbiamo le armi per colpirvi» e moltiplicava le prove di forza, tanto che ebbe soprannome di «Artiglio» dal popolino e di «Sceriffo di Nottingham» dai più letterati. Indimenticabile il grottesco assalto allo yacht di Briatore, fermato a sirene spiegate al largo di La Spezia dai gommoni della Gdf e arrembato dai militari armati tra i pianti di Elisabetta Gregoraci, moglie di mister Billionaire, che, sola a bordo, allattava il figlioletto di due mesi e che per il terrore perse il latte.
Oggi, Befera ha cambiato linguaggio. Di punto in bianco, ha riconosciuto che «se ci fossero meno tasse, indubbiamente, ci sarebbe meno evasione». Un'ovvietà - tanto che Beppe Grillo lo ha proposto al Nobel per la scoperta dell'acqua calda - ma che in bocca ad Attilio sa di nuovo. Ha così moltiplicato le presenze tv - trattato come una reliquia dagli anchorman, che lo intervistano da solo su un tronetto, non mescolato agli altri ospiti - per appellarsi alla riconciliazione tra fisco e contribuenti, invitando tutti a rivolgersi fiduciosi alla sua Agenzia e altre cose così.
Forse è fuffa. Un'astuzia per blandirci e stemperare le tensioni, dopo i pacchi bomba, gli attentati alle sedi di Equitalia, i suicidi davanti agli uffici dell'Agenzia, le rivolte dei Forconi. Dubitare delle buone intenzioni del fisco è, infatti, obbligatorio in uno Stato fondato sulla disparità legalizzata tra cittadini e pubblica autorità. Impotenti gli uni, prepotente l'altra. Un regime che non onora i propri debiti verso i privati e, allo stesso tempo, esige che questi paghino le imposte, invece di compensare gli importi, non merita fiducia. Befera, che del fisco è maestro, queste cose le sa. Se quindi parla in modo nuovo, non è per ingenuità, ma perché - lo dicevamo all'inizio - qualcosa è cambiato in lui.
Secondo voci, Attilio è stanco. Non pentito, ma stufo di passare per l'emblema dei due pesi e due misure. Va verso i 68 anni ed è su un avamposto rischioso da troppo tempo. Non pensa alla pensione perché si sente in forma, con l'unico cruccio di una capolineggiante pancetta che deforma la linea ideale delle bretelle, da lui usate al posto della cintura, e che indossa nei più sgargianti colori prendendo un'aria yankee in divertente contrasto con la sua cadenza romanesca. È quindi alla ricerca di un incarico meno esposto che lo lasci di più alla famiglia.
Si può capirlo. Befera è fresco sposo, in seconde nozze, di Anna Rita Pelliccioni, graziosa e ben più giovane signora dai tempestosi capelli riccioluti con la quale passeggia mano nella mano. Anna Rita è funzionario delle relazioni esterne delle Poste e si è sentita in dovere di smentire di essere lì grazie al potente neo marito, occupando il posto da prima. Al loro matrimonio, nell'ottobre 2012, parteciparono trecento invitati, l'intero gotha politico e amministrativo. Officiante del rito civile, nella chiesetta sconsacrata di Santa Maria in Tempulo, lungo la romana Passeggiata archeologica, fu l'allora tesoriere e deputato del Pd (oggi senatore), Ugo Sposetti. Costui, grande sponsor di Attilio, è al momento il più impegnato a trovargli un nuovo incarico, più defilato ma consono alle abitudini beferiane. Non si può infatti dimenticare che Attilio è tra i pubblici dipendenti meglio pagati del pianeta. L'ultimo reddito reso noto, 2012, ammonta a 772.335 euro. Quelli successivi dovrebbero essere inferiori, poiché il Nostro annunciò tempo fa che, visto il momentaccio, faceva un sacrificio, rinunciando sua sponte allo stipendio di presidente di Equitalia: 160mila euro annui. Da allora - e questo gli fa onore - si accontenta del compenso dell'Agenzia delle entrate, 301.000 euro, pari a quello del primo presidente della Cassazione e di Barak Obama.
Il senatore ex pci, Sposetti, si affanna per lui per affinità umana e politica. Attilio, infatti, è sempre stato di sinistra, nonostante provenga dal mondo bancario, quintessenza del capitalismo. L'istituto nel quale entrò prima ancora di laurearsi brillantemente in Economia, è l'Efibanca, banca d'affari nata fascista che nel 2011 è stata inglobata dalle Coop, concludendo il suo ciclo. In trent'anni di carriera, Befera ne è diventato direttore centrale. È stato anche sindacalista della Cgil bancari, come C. A. Ciampi in Bankitalia. Dalle prime nozze ha avuto due figli, oggi ultratrentenni.
Il primo che lo adocchiò per l'amministrazione finanziaria fu, nel 1995, il democristianeggiante Augusto Fantozzi, ministro delle Finanze del governo Dini. Da lui, fu messo al Secit (ispettori tributari). Il successore, il ds Vincenzo Visco, lo nominò dirigente generale e lo protesse politicamente anche in seguito. Da allora, la nuova carriera di Attilio prese l'aire. È andato a fagiolo a tutti i titolari del fisco perché parlavano la stessa lingua rapace. Piacque al cgiellino Ottaviano Del Turco (governo Amato II) che lo portò alla neonata Agenzia delle entrate dove Befera trovò il suo habitat naturale. Di lui si innamorò addirittura il forzista Giulio Tremonti che, da grande tributarista, dopo avere utilizzato tutti i trucchi antitasse in favore dei suoi clienti, passato dall'altra parte della barricata come ministro dell'Economia, trovò in Befera il mastino ideale per dare addosso a quelli che fin lì aveva favorito.
Tremonti è, quanto e più di Visco, l'inventore dello stile fiscale odiosetto che Befera ha poi burocraticamente incarnato. Attilio però ci ha messo un sadismo suo, in contrasto con una natura unanimemente riconosciuta come gentile (di qui l'ennesimo soprannome di Tassator cortese). Porto un esempio: che bisogno aveva di dare al suo sistema informatico di controllo dei nostri conti bancari il nome di Serpico, leggendario poliziotto anticorruzione? È un insulto gratuito rivolto a tutti.
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